4 agosto-4 settembre. Un mese esatto dallo scoppio che ha bloccato gli orologi alle 18.08, ora in cui è saltato il capannone 12 al porto di Beirut. Dolo, caso, cattivo stoccaggio, sarà il tribunale di Fadi Sewan che stabilirà – se stabilirà, quando stabilirà – la verità.

Una cosa è certa: quello non era il posto per le 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio, giacenti al porto da sei anni, alla base dell’esplosione che ha causato circa 200 morti, 7mila feriti, 300mila sfollati e danni incalcolabili alla città.

IN QUESTO MESE è successo di tutto. Le dimissioni di Diab che accusa il sistema corrotto (lo stesso che lo aveva messo al potere) di avergli impedito di riformare il paese. Lunedì Mustafa Adib diventa premier e ora si aspetta la formazione del nuovo governo. Protagonismo assoluto Macron, già due volte in Libano dallo scoppio. 253 milioni di euro in aiuti stanziati. Rinnovo missione Unifil al confine con Israele. Discrepanze Stati Uniti-Francia sul futuro di Hezbollah. Proteste, scontri con la polizia. Impennata del Covid-19 e due lockdown. Stato di emergenza e poteri speciali all’esercito. E la lista continuerebbe.

Il popolo libanese che vive da un anno la crisi economica più forte della sua storia era sceso in piazza il 17 ottobre scorso contro la corruzione e l’inefficienza della classe politica al potere da decenni e si trova ora ad affrontare le conseguenze dell’esplosione.

PER GENTRIFICAZIONE, termine introdotto da Ruth Glass nel 1964, si intende il fenomeno per cui aree popolari subiscono un cambiamento socio-culturale in seguito all’acquisto di immobili da parte di privati che li trasformano in posti alla moda. I prezzi generali aumentano e il resto dei residenti è costretto ad abbandonare il centro urbano.

Beirut certo non si è sottratta negli anni a questa logica. Quando dopo la guerra civile (1975-90) fu fondata Solidere (1994) – compagnia pubblica/privata estremamente contestata, sotto l’allora premier Rafiq Hariri – il centro di Beirut fu totalmente ricostruito su un modello che guardava al Golfo. Il suq, vera agorà della vita sociale ed economica libanese – luogo in cui avviene l’esercizio della sfera pubblica, per dirla con Habermas – fu sostituito da negozi per ricchi, dall’alta moda ai caffè di lusso, diventando di fatto luogo inaccessibile al popolo.

L’ESERCIZIO DEL POTERE passa anche e soprattutto attraverso la gestione dello spazio, come spiega l’illuminato urbanista Mumford quando parla della relazione organica tra le persone e lo spazio in cui vivono. Il neo-liberismo opera questa lacerazione tra uomo e luogo in modo sistematico.

L’ong Save Beirut Heritage si batte da anni affinché gli edifici storici non vengano demoliti per lasciare spazio a nuove costruzioni, con l’assenso complice e criminale delle varie municipalità. L’Unesco conta 640 edifici danneggiati di cui una sessantina a rischio crollo o crollati nell’esplosione, che ha solo amplificato e accelerato il rischio di un incremento della gentrificazione già in atto.

A pochi giorni dall’esplosione, eccoli girare per le macerie di Gemmayze, Mar Mikhail, Geitawe, quartieri a carattere storico di Beirut, i «benefattori» che, contanti in mano – ovviamente meno del valore reale – non vedono l’ora di “aiutare” chi ha perso tutto. Appaiono allora sulle rovine striscioni con la scritta «Beirut non è in vendita», ma poi più che il dolore può il digiuno e chissà per quanto ancora il popolo libanese potrà resistere.

IL ROMANTICISMO sulla resilienza dei libanesi non attacca più. Migliaia i casi di disordini post traumatici come ansia, depressione, attacchi di panico, rabbia, frustrazione. L’ong Embrace parla di «senso generale di disperazione e mancanza di aspettative». I giovani che hanno potuto se ne sono andati e quelli rimasti cercano un modo per scappare.

L’esplosione ha solo accelerato questo processo: già prima la disoccupazione giovanile era altissima. Ora però ha spazzato via in un colpo solo anche le speranze di cambiamento che la thaura, la rivolta, aveva riacceso.
Costretti negli anni al mercimonio politico per avere ciò che spetterebbe loro di diritto, disillusi, traumatizzati, i libanesi cercano oggi una strada tra le macerie.