Dopo aver vinto il Pulitzer nel 2013 nella categoria «Breaking news reporting» per le loro inchieste dedicate al massacro nella cittadina di Aurora nel Colorado, i redattori del Denver Post si sono riuniti nella hall principale della sede del giornale e hanno fatto la foto di rito, tutti insieme per celebrare quel prestigioso traguardo (il nono Pulitzer vinto dal Post dal 1964).

È una foto circolata molto anche su diversi altri giornali americani più di recente, infatti solo cinque anni dopo – nell’aprile del 2018 – i dipendenti del quotidiano in un inserto editoriale di protesta contro il drastico ridimensionamento subìto dalla redazione, hanno utilizzato quella stessa immagine trasformando in sagome nere quelle di tutti i giornalisti licenziati fino ad allora: circa due terzi dei reporter.

Una protesta che in quest’ultimo anno si è estesa in molte altre redazioni locali come mai prima negli Stati Uniti.

Cosa è successo?

Queste testate negli anni scorsi sono passate sotto il controllo di un hedge fund, uno di quelli che ormai vengono comunemente chiamati «fondi avvoltoio», definizione che lascia poco a interpretazioni.

Il fondo in questo caso si chiama Alden Global Capital ha sede a New York e da anni, attraverso una sua controllata MediaNews Group (ma fino a poco fa si chiamava Digital First Media), si è specializzato nell’acquisto di testate locali – circa sessanta quotidiani e numerosi settimanali – per poi, attraverso una durissima politica di tagli ai costi e al personale, lasciare solo un guscio vuoto.

Ed è proprio quel «guscio» ad interessare di più, visto che il principale obiettivo di questo tipo di operazioni è quello di fare speculazioni immobiliari.

Non è un caso isolato, ad esempio un’altra grande catena di testate locali americane come GateHouse Media è controllata da una società di gestione di capitali, Fortess Investment.

Un’inchiesta giornalistica del 2017 «Salvate la libera stampa dal private equity» denunciava, tra le altre cose, come i sostanziosi tagli imposti ai giornali di questo editore coincidessero con le generose commissioni di gestione prelevate dai dirigenti del fondo dai bilanci di GateHouse.

Secondo un report del Center for Innovation and Sustainability in Local Media sei dei dieci maggiori editori di giornali americani sono in mano società d’investimento.

Una storia che in questi mesi potrebbe trovare il suo capitolo più importante: il fondo Alden Global ha fatto all’inizio di quest’anno un’offerta di acquisizione ostile per 1,36 miliardi di dollari all’editore Gannett, ovvero la catena di giornali per diffusione più importante degli Stati Uniti (proprietaria di Usa Today e di oltre un centinaio di testate locali).

L’attuale proprietà di Gannett – che pure in questi anni ha applicato una dura politica di tagli – ha respinto un primo attacco dei finanzieri di Alden Global cercando di bloccarne la scalata.

Il 16 maggio scorso l’assemblea degli azionisti di Gannett ha bocciato la vendita, vanificando, almeno per ora, un possibile terremoto nella geografia informativa Usa alla vigilia delle presidenziali del 2020.

Un grosso problema visto che studi recenti pubblicati su Scientific American legano a doppio filo l’ascesa della polarizzazione del dibattito politico negli Stati Uniti con la desertificazione dei giornali locali.

Dei conti di Alden però non si sa molto, è un fondo privato e il management tiene molto a non far trapelare notizie sul proprio conto: ad esempio il sito internet non è niente di più che un’immagine con scritto appunto «Alden Global Capital».

Il suo modo di operare però è ormai abbastanza chiaro: «Strategia ‘mercenaria’ di un hedge fund: compra i giornali, taglia i posti di lavoro, vendi gli immobili» ha titolato lo scorso febbraio il Washington Post in un lungo reportage dedicato proprio all’attività del fondo in campo editoriale.

Lo schema è ormai consolidato. Si acquistano giornali da editori in difficoltà ma anche testate che ancora producono utili e i cui proprietari non avendo eredi hanno deciso di vendere a prezzi di saldo – si utilizza il flusso di cassa, si tagliano i costi anche oltre il 70%, ovviamente la qualità ne risente, calano gli abbonati e allora si procede ad ulteriori tagli.

Quando non c’è più niente da spremere si smantellano beni e attrezzature (le sedi centrali, gli uffici di corrispondenza e le tipografie) per metterli sul mercato immobiliare, una politica di «mungitura», come l’ha definita l’analista Ken Doctor, disastrosa per l’informazione locale ma ottima per massimizzare i profitti degli «avvoltoi» nel breve periodo.

Sì perché questo approccio fatto di tagli a un tasso più del doppio della media nazionale e unito alle speculazioni immobiliari ha permesso ad Alden Global di guadagnare denaro: «Anche se – scrive nel suo reportage il Washington Post – la diffusione e le entrate dei giornali sono diminuite in tutto il paese, nel 2018, i margini di profitto operativo di Alden sono stati del 16,2% – cinque punti percentuali più alti di quelli di Gannett».

Poi ci sono operazioni non chiare, ad aprile sempre il Washington Post ha rivelato che era in corso un’indagine federale su trasferimenti di denaro – 250 milioni di dollari secondo il giornale di Bezos – dai fondi pensione dei dipendenti dei giornali controllati sui conti di Alden Global.

Quella con Gannett, del quale il fondo Alden Global possiede il 7,5% di azioni è una battaglia che si sta giocando anche su nomine interne al consiglio di amministrazione e promesse di maggiori guadagni. Gannett negli ultimi anni ha garantito utili per azione stabili, ma stabile non è una parola che eccita troppo gli investitori, così molti analisti di mercato pensano che gli azionisti potrebbero essere comunque attratti dall’idea che Alden Global possa applicare, anche in questo caso, il suo approccio spietatamente efficace per aumentare il prezzo delle azioni per poi avere possibilità di investire i guadagni in altri settori.

È un aspetto quest’ultimo che si lega anche a quanto sta accadendo a molti nuovi editori nativi digitali americani, che oggi dopo l’ubriacatura da iper-valutazioni degli anni passati devono rivedere i loro piani.

Ad esempio una delle stelle assolute della nuova frontiera digitale dell’informazione come BuzzFeed a inizio anno ha smantellato quasi per intero la redazione che si occupava di cronaca nazionale perché, pur essendo in crescita, i suoi fatturati non hanno soddisfatto le aspettative dei venture capitalist che hanno investito sul giornale e che, adesso, spingono la giovane media company a farsi quotare in Borsa.

L’idea che i nuovi editori digitali potessero mantenere negli anni gli standard di crescita al pari delle aziende della Silicon Valley si è rivelata tremendamente sbagliata.

E poi crescere non basta – tantomeno mantenere stabili i fatturati – bisogna garantire gli alti margini di guadagno promessi, altrimenti la strada è quella dei tagli al personale ed eventualmente la vendita. Anche se mantenere in vita un giornale non significherebbe, spesso, per gli investitori e il management perdere soldi ma semplicemente ottenere guadagni minori.

* Lelio Simi lavora per DataMedia Hub