Problemi nuovi, solite soluzioni. Meglio: problemi relativamente nuovi. Perché della disinformazione, delle fake news è da tempo che se ne parla. Da almeno due elezioni presidenziali americane. Ed è da tempo che anche l’Europa prova ad occuparsene.

Tanto che da diversi anni ha preso il via l’Edmo, una sede virtuale che riunisce studiosi, esperti, accademici per provare a monitorare il fenomeno. Da lì è partito un progetto per dotare l’organismo europeo di filiali nazionali, chiamiamole così. Con un bando che in due tranche ha portato a una spesa di quasi quindici milioni di euro.

E ieri, lunedì 20 settembre, – nella lussuosa aula magna dell’università della Luiss – è stato presentato il cosiddetto “hub italiano”: l’Idmo, Italian Digital Media Observatory. Che, appunto, ha vinto la gara.

E’ una sorta di consorzio, dove c’è la Rai, ovviamente la Luiss, più il gruppo Gedi, cioè Repubblica, l’ateneo di Tor Vergata, società che vendono servizi on line e Pagella Politica, un gruppo di giornalisti che da tempo prova a fare fact-checking.

Tutti insieme per fare cosa? L’obiettivo – per usare le parole dell’immancabile Gianni Riotta, direttore del Luiss DataLab, che ha coordinato anche l’incontro alla Luiss – è quello di monitorare il fenomeno. Del quale si sa ancora troppo poco. Ma che preoccupa. Tanto più in epoca di pandemia.

Secondo gli organizzatori – che hanno citato un’indagine alla quale ha collaborato sempre il gruppo Pagella Politica – nel nostro paese le fake news sarebbero cresciute del cinquecento per cento. Nell’incontro però non è stato fornito alcun altro dato per provare a saperne di più. In ogni caso, anche se così all’ingrosso, sono cifre che spaventano. Che rischiano – lo hanno detto i brevissimi messaggi video e le mail mandate dall’eurocommissario Paolo Gentiloni e dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio – di “minare le stesse basi della democrazia”.

Con un problema, però. Che la definizione di regole non può e non deve essere semplicistica. Per tutti valgano le parole di Giuseppe Abbamonte, direttore del Media&Data Directorate European Commission che da Bruxelles, in video chiamata, ha ricordato che con le big tech c’è già una sorta di codice, varato all’epoca delle ultime elezioni, per provare a contrastare il fenomeno. Ma comunque, “non si può delegare ai privati” il governo di questo fenomeno. Perché in ballo c’è il difficile equilibrio fra il diritto al dissenso e l’altro diritto, quello ad una giusta e corretta informazione. Un equilibrio che non può essere forzato con una spallata.

Ed invece, nel suo breve intervento, Paola Severino, – l’ex responsabile della Giustizia durante il governo Monti e che in quest’aula è di casa perché è vicepresidente della Luiss – ha tirato fuori l’ormai trita proposta della fine dell’anonimato in rete. Come se davvero i “diffusori di fake news” potessero restare senza un nome e un indirizzo telematico. Come se davvero fosse lì il problema.

E la vecchia proposta è stata ritirata fuori proprio a pochi giorni dalla pubblicazione di una ricerca di NewsGuard – gruppo che comunque collabora con l’hub – che ha scavato a fondo sul tema e ha scoperto che dei 571 siti più visitati che disinformano sui covid ed i vaccini, ben quaranta sono in Italia. Sono in italiano. Finanziati dalla pubblicità di tutti i marchi e brand. Che inconsapevolmente o meno versano centinaia di migliaia di euro (o dollari) nelle casse di chi quelle fake news le scrive e le mette on line.

L’idea che sui social occorra presentarsi col proprio nome e cognome verificato è comunque piaciuta a tutti i partecipanti dell’incontro alla Luiss. Anche perché né in sala – né tantomeno fra i componenti dell’hub italiano – c’erano i rappresentanti delle associazioni a difesa dei diritti digitali. Neanche di quelle più istituzionali. Tutte sempre in prima fila nella battaglia contro la disinformazione. Associazioni che avrebbero potuto spiegare a Severino e agli altri che l’anonimato on line – ciò che resta dell’anonimato in rete – è ancora uno dei pochi strumenti dei quali dispongono le minoranze nei paesi non democratici, uno dei pochi strumenti a disposizione delle comunità svantaggiate.

Le associazioni non c’erano, né ci sono. Così l’incontro è andato avanti sui soliti binari, col sottosegretario all’Editoria Giuseppe Moles che – con un accostamento non proprio lineare – ha messo insieme la lotta alle fake news alla lotta contro la pirateria e a difesa del copyright.

Unico accenno fuori dal coro, le poche parole al termine del suo intervento della vice direttrice di Repubblica, Stefania Aloia. Fra le tante cose ha accennato anche alla responsabilità dei grandi mezzi di informazione, che una qualche colpa potrebbero avercela: le fake news prosperano, forse, perché i media sono sempre meno credibili.

Poteva e doveva essere il tema: senza l’autorevolezza della cosiddetta “informazione di qualità” – così si autodefiniscono – trova spazio la disinformazione. Ma è stato lasciato cadere. Ci si è concentrati sulla fine dell’anonimato.