Alberto Fasulo è di San Vito al Tagliamento, a cinquecento metri da Casarsa, il paese di Pasolini, ma io lo incontro al tavolino di un bar di Locarno, dove ha presentato fuori concorso, la sua ultima fatica, Genitori. Dai silenti anti eroi pasoliniani che popolano le valli del Tagliamento Alberto ha distillato la caparbietà, una volontà come le rocce di fiume. È un cacciatore senza armi, che ti guarda con gli occhi chiarissimi e subito sai che seguirà la sua preda con tutta la tenacia di cui è capace, incurante degli accidenti e degli incidenti che si parano sul sentiero. E il suo cinema è così, battuta venatoria, predatoria mai, che bracca la realtà da ravvicinata distanza ma senza farsi notare, sparendo tra le frasche di una rispettosa discrezione.
A caccia non ci va per divertimento ma spinto da una fame atavica de virtute e canoscenza: «Sicuramente per me il cinema è un modo per conoscere la realtà, e la relazione che instauro con questa realtà che filmo è qualcosa da costruirsi prima di filmare, sulla base di un sentimento di sincera curiosità verso l’argomento. E questa forma di curiosità fa si che per me il momento della ripresa sia sempre una esperienza di tipo formativo».
È un discorso tutto personale quello di Alberto che prima ancora di mostrare agli altri vuole com-prendere in sé e per sé il reale, sulla base di una relazione cognitiva certa, che sappia fare piazza pulita della diceria e dell’opinione non documentata «dietro c’è molta ricerca, per Tir ho fatto un lavoro di documentazione durato tre anni perché prima di iniziare a filmare cerco di comprendere la realtà per poi poter capire quale sia la storia da raccontare e il modo giusto di filmarla. In Genitori, a livello potenziale, erano contenuti mille film possibili e capire quale fosse quello più giusto rispetto alla situazione reale che ho incontrato, forse, è stata la cosa più difficile. Cerco la massima onestà nei confronti di quello che filmo ed è stato questo a determinare l’impostazione documentaristica che il film ha, perché mi sarebbe sembrato quasi offensivo l’immettere qualcosa di finzionale accanto a queste persone, a questi volti, solo per far capire meglio una drammaturgia, cioè come dire che loro non fossero sufficienti, ancora una volta, capaci di adempiere qualcosa, ad essere genitori normali». Genitori normali, è questo il concetto chiave di un film in cui con un obiettivo discreto, che non prende posizioni e non autorializza il materiale reale, Alberto entra, per ben cinque anni all’interno di un gruppo di auto (e reciproco) aiuto per genitori con figli colpiti da disabilità. Il focus è proprio la normalità dell’anormalità, il tentativo di mostrare come, il concetto torna ripetutamente nelle parole di questi genitori, una famiglia che convive con la disabilità non sia anche una famiglia dis-abile. Prima ancora che un’opera filmica, un documento umanissimo e sentito, in cui si rivela l’artificiosa inconsistenza di tutti quei dispositivi psicologici distanzianti, che ci proteggono da ciò che riteniamo disfunzionale, atipico, non allineato a quelle traiettorie del senso comune che espellono dalla rappresentazione del mondo il dolore, la malattia e la morte. «La prima cosa che ho capito lì dentro è che poteva succedere anche a me, in qualsiasi momento, e diventare disabile, una consapevolezza che dapprima mi ha allarmato, ma che mi ha permesso di capire che c’era veramente poca distanza tra me e cosiddetto disabile. Il primo incontro con il gruppo è stato un imprinting fortissimo, sono entrato in quella stanza in un modo e ne sono uscito in un altro, ho pianto, mi sono ritrovato nudo di fronte a persone che nemmeno conoscevo, un’esperienza davvero spiazzante». Saranno poi gli stessi membri del gruppo a chiedere ad Alberto di parlare della disabilità attraverso un film, pregandolo di sdoganare la rappresentazione da quegli stereotipi che troppo spesso ne inficiano la veridicità. Perché il mondo dei «normali», che oramai tutti si ritengono progressisti e umanisti, da un lato infarcisce il discorso sul tema con una sorta di pietismo politicamente correttissimo quanto non partecipativo, mentre dall’altro «guardano il disabile come si fa con uno scarafaggio strano attraverso il vetro di un laboratorio», protetti dalla certezza di una differenzialità di cui non avvertono l’inconsistenza. Il film allora, pasolinianamente, diventa lingua scritta della realtà, lascia che sia questa ad esporsi come coincidenza di significato e significante. Ne nasce un cinema, come spesso è quello di Fasulo, più del sottrarre e del ridurre che non dell’aggiungere e dell’espandere. La costruzione enunciativa cerca, non senza sforzo, un’essenzialità ossuta, una grammatica volutamente minimale nettata da preziosismi stilistici e fatta più che altro di inquadrature frontali immobili e primi piani, che, in controtendenza rispetto alla proliferazione de-significazionale di volti svuotati (vedi alla voce «libro delle facce») fa dell’immagine del viso luogo di addensamenti emozionali ed epifanie del senso. «Il film inizialmente era pensato per essere fatto solo di primi piani, io però non amo le scelte che poi degenerano nel virtuosismo, perché non sono qua a far vedere quanto sono bravo io, ma per essere al servizio del racconto, così ho cercato l’apertura dinamica dei piani a due, perché stando lì e filmando ho scoperto quanto mi piaceva quando una persona parla e quella affianco ascolta e ascoltando assume una posizione che sembra quasi un commento rispetto a quello che sta dicendo la prima persona»
Un film, in fin dei conti, sullo scambio, reciproco, salvifico, che avviene tra questi genitori che incontrandosi si confrontano e confortano, riuscendo, almeno in parte, a vincere l’isolamento distruttivo in cui la società dei normali condanna queste famiglie di (stra)ordinari eroi.