«Guelfi» e «ghibellini» sono nati in Germana quando, alla morte di Enrico V di Franconia, che nel 1122 aveva sottoscritto il concordato di Worms con papa Callisto II, non si era riusciti a trovare un accordo sulla successione: la nobiltà tedesca si era divisa in una fazione favorevole ai duchi di Baviera e perciò detta «guelfa» (da un Welf ch’era il capostipite della famiglia ducale bavarese) e una favorevole invece ai duchi svevi, che avevano ereditato la politica degli imperatori della casa di Franconia, e detta perciò «ghibellina» dal castello di Weiblingen, uno dei più importanti posseduti dalla famiglia degli Hohenstaufen che dominava il ducato di Svevia.

TUTTAVIA, È IN ITALIA che guelfi e ghibellini sono diventati celebri, al punto da divenire, nel linguaggio comune, simbolo di ideologie opposte e di parti insanabili non solo con riferimento al medioevo, ma anche alle epoche successive fino alla contemporanea.
Secondo una tradizione a lungo circolata fra fonti differenti, in Italia questa divisione sarebbe arrivata nel 1215 a causa di un banale litigio che aveva visto protagonista Buondelmonte dei Buondelmonti, «ch’era molto leggiadro e bello cavaliere», fidanzato ufficialmente con una fanciulla della potente casata degli Amidei. Il giorno delle nozze, Buondelmonte non si presentò al matrimonio. La promessa sposa e i parenti lo attesero invano nella chiesa di Santo Stefano, e, quando si resero conto dell’affronto subito, decisero di vendicarsi dello sfrontato cavaliere, che nel frattempo si era fidanzato con un’altra.

COSÌ NARRA IL CRONISTA fiorentino Giovanni Villani: «Cosa fatta capo ha», avrebbe dichiarato uno fra gli offesi, decretando così la morte di Buondelmonte, crudelmente ucciso nei pressi della statua di Marte che si trovava sul Ponte Vecchio. Questa faida causò la nascita delle opposte fazioni a Firenze: «Firenze fu guasta e partita», scrive infatti il cronista. Dante farà da cassa di risonanza a questa tradizione, lui che delle lotte fra fazioni era stato protagonista e poi vittima. Al di là della «leggenda delle origini», con guelfi e ghibellini vengono identificati i partigiani, rispettivamente, del papato e dell’impero fra XII e XIII secolo, ossia al tempo di Federico I Barbarossa e di suo nipote Federico II; ma anche dopo la morte di questi, nel 1250, le loro lotte continuarono a insanguinare l’Italia.

PAOLO GRILLO, in un veloce libro che arriva dritto all’obiettivo (La falsa inimicizia. Guelfi e ghibellini nell’Italia del Duecento (Salerno editrice, pp. 168, euro 14), smonta queste idee preconcette. Oggi la storiografia non considera guelfi e ghibellini come due schieramenti ideologizzati; ma nemmeno, aggiunge Grillo, come fazioni date una volta per tutte. Si trattava piuttosto di confini labili, dove gli interessi delle parti erano molto più rilevanti delle supposte appartenenze: i fuoriusciti potevano essere reintegrati, gli schieramenti mutavano in base agli interessi delle famiglie e dei gruppi di potere in un’epoca di elevata conflittualità, come mostra anche la raccolta Guerre ed eserciti nel medioevo, a cura di Paolo Grillo e di Aldo A. Settia (il Mulino, pp. 374, euro 25), dove la parte più ampia è dedicata proprio alle guerre nell’Italia di quei secoli. Non che all’epoca non esistessero ideologie politiche.
Lo si evince chiaramente da libro di Gianluca Briguglia, Il pensiero politico medievale (Einaudi, pp. 236, euro 21), che parte dal primo trattato medievale di politologia, il Policraticus di Giovanni di Salisbury, passando per Brunetto Latini, Dante e la scolastica, fino ad arrivare ai grandi quadri di Guglielmo di Ockham e Marsilio da Padova.

QUESTI DUE ULTIMI AUTORI scrivevano agli inizi del Trecento, quando impero e papato avevano ormai esaurito la funzione universalistica ch’era stata loro propria nei secoli centrali del medioevo. Entrambi erano fautori di una nuova concezione del potere imperiale. Al centro della questione, un atto simbolico: nel gennaio 1327 Ludovico il Bavaro, re di Germania, si era fatto incoronare imperatore a Roma, ma non dal papa (allora ad Avignone) o da un suo vescovo emissario, com’era nella tradizione, bensì dal senatore della città: quello Sciarra Colonna che aveva insultato Bonifacio VIII quando questi era stato catturato ad Anagni dai francesi agli ordini del re Filippo IV il Bello. Le tesi circa l’incoronazione «laica» di Ludovico il Bavaro erano maturate soprattutto grazie al contributo di questi due grandi pensatori che gli erano stati vicini. Marsilio da Padova era uno studioso padovano docente universitario alla Sorbona, dove aveva ricevuto da papa Giovanni XXII perfino una carica canonicale. Nel 1324 compose, insieme al suo collaboratore Giovanni di Jandun, un trattato di teoria politica, il Defensor pacis, dedicato all’origine della legge: esso provocò tanto scalpore da obbligarlo a fuggire presso l’imperatore Ludovico IV, che accompagnò in Italia nel 1327-1328.

NEL «DEFENSOR PACIS» era svolto il concetto dell’autorità politica come dotata di una sua piena autonomia da quella religiosa, fondamento della quale era il «popolo», o meglio la sanior et melior pars di esso. Marsilio proponeva inoltre che i vescovi venissero eletti da assemblee popolari e che massima autorità ecclesiastica fosse non più il papato, bensì il concilio dei vescovi. Secondo Guglielmo d’Ockham, fra autorità religiosa e autorità civile la distinzione doveva essere netta, in quanto diversi sono i fini di ciascuna. Allo stesso modo, per Ockham era necessario distinguere tra fede e ragione: da una parte nessuna verità rivelata poteva essere oggetto di dimostrazione scientifica, dall’altra la filosofia era fondata sull’uso ordinato della ragione e sulla dimostrazione empirica che non potevano in alcun modo venir influenzata dalla fede.

L’OPERA CHE FORNÌ il maggior aiuto alle tesi di Ludovico IV fu il Dialogus, nel quale sosteneva che l’autorità imperiale derivava da Dio non per il tramite del papa bensì per quello degli uomini. Inoltre – commentava Ockham – l’imperatore era sì superiore alle leggi, ma sottoposto all’equità naturale; egli non doveva pertanto impartire ordini che fossero nocivi al popolo e, quando lo avesse fatto, diveniva lecito disubbidirgli. La delega dell’autorità del popolo all’imperatore era quindi condizionata al suo buon governo, non assoluta.
Con Marsilio da Padova e con Guglielmo di Ockham siamo dinanzi ai fondamenti del potere statale modernamente inteso.