“Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”, recita uno degli incipit più potenti della narrativa del novecento, tratto dal romanzo Aden Arabia, di Paul Nizan. Chissà quanti fra di voi, oggi quarantenni, ne aveva venti a Genova nel luglio 2001.
Vent’anni, i primi cortei, la convinzione che un mondo diverso era possibile, i concerti, i colori, gli slogan talmente belli nei quali non potevi non riconoscerti, c’era il ritratto di tutta una generazione in quelle parole, la generazione di chi era nato attorno agli anni ottanta.

Troppo belli, e troppo veri, soprattutto, quegli slogan urlati in faccia agli otto grandi della terra che avevano deciso di riunirsi nel cuore di una città magnifica per ostentare con arroganza la loro potenza, le loro prepotenze. In principio, sembravano indifferenti alle parole che stavano diventando il ritratto, la carta d’identità di un movimento trasversale, globale. Poi però, i potenti hanno capito che non si trattava solo di parole. Solo di utopie. Nei giorni precedenti il G8, in una serie di meeting internazionali dove si confrontavano premi Nobel ed esperti giunti da ogni angolo del pianeta, il Genoa Social Forum aveva mostrato a tutti che davvero un mondo diverso era possibile, che vi erano i presupposti e le risorse per far fronte a delle necessità che oggi, vent’anni dopo, sono sotto gli occhi di tutti.

Faceva una paura folle, quel mondo così diverso e così possibile ai vari Bush, Putin, Chirac, Berlusconi. Avevano capito che sarebbero stati spazzati via dall’onda di Seattle. Bisognava fare qualcosa, si erano detti, perché il passaparola di quella visione stava circolando deciso e troppo in fretta. Fare qualcosa. Un’unica cosa, definitiva e dolorosa: annientarlo quel movimento che si era messo in moto e che rischiava di diventare inarrestabile.

Un movimento giovane, spesso giovanissimo, quelle età dove i sogni sono sinonimo di realtà, basta allungare una mano, convinti. Le mani dipinte di bianco che i manifestanti agitavano in aria nel meraviglioso corteo dei migranti del mercoledì 19 luglio 2001, il giorno prima che venisse messa in atto quell’unica cosa possibile: l’uccisione del movimento, perpetrata attraverso una mattanza mia vista prima in Europa, dal dopoguerra in poi. E chi in quei giorni a Genova, aveva vent’anni o giù di lì, non ha potuto allora che farlo suo, l’incipit di Paul Nizan. Perché i cortei, il mondo diverso, i concerti, i colori, gli slogan belli sono stati spazzati via dai gas velenosi, dai manganelli della Diaz, dagli arresti di massa, dalle torture a Bolzaneto.

Io c’ero, a Genova, anche se avevo gli anni che oggi hanno i ventenni di allora. Dovevo raccontare il contesto del G8 per alcuni giornali. Ci sono andato come scrittore, ma anche come manifestante, partito insieme agli amici del Rivolta di Marghera. Tornato a casa, mi sono accorto che i reportage che avevo scritto non mi bastavano. Non bastavano a raccontare tutto quello che avevamo vissuto e visto, tutto quello che era accaduto. Mi dissi che avrei dovuto scriverne un romanzo il cui titolo (che arrivò solo alla fine) era una domanda banale.

Decisi però di togliere il punto interrogativo, perché volevo trasmettesse rassegnazione, un Cosa cambia pronunciato a braccia allargate, impotente. Oggi, vent’anni dopo, il punto di domanda andrebbe aggiunto. Anzi, più d’uno, perché ormai siamo oltre la rassegnazione. Quei punti interrogativi dovrebbero sottolineare la disperazione, perché le speranze di Genova si sono infrante dentro a un minuscolo carruggio, massacrate di botte, magari dalle parti di via del Campo, fra le note malinconiche di De André. I perché sono intuibili, troppe cose (che cambiano, che ci hanno cambiati?) sono successe, ma non è mio compito fare una riflessione sociale o politica o storica. Faccio lo scrittore e di quei vent’anni da Genova 2001 e dei quattordici dalla pubblicazione di quel romanzo (oggi riproposto in una nuova edizione da People), mi interessa soprattutto la differenza, il sei, che sono stati gli anni di stesura di Cosa cambia.

Mi interessa ripercorrere gli strani itinerari che la scrittura segue nostro malgrado quando deve misurarsi con qualcosa di inaudito, qualcosa che segnerà per sempre il cammino di un paese.

Ci sono voluti sei anni per liberarmi prima di tutte le scorie intime e dolorose che i giorni di Genova avevano lasciato dentro di me, per poi trovare una chiave narrativa che tenesse in piedi la storia con la esse minuscola, intima, privata, che si sarebbe intrecciata a quella con la esse maiuscola, perché Genova 2001 è entrata ahimè a far parte della Storia di questo paese come una delle pagine più nere, vergognose, determinanti. Ci sarà per sempre un prima e un dopo Genova, nella Storia italiana e dentro a coloro che in quei giorni sono stati lì a manifestare, a testimoniare, a soffrire. Ma a Genova c’eravamo andati ciascuno con le proprie vite, i sentimenti, le emozioni. E quel che è accaduto in quei giorni violentissimi, la «macelleria messicana» perpetrata sulla pelle di tanti, troppi, le ha condizionate, le nostre vite. Ci sarà per sempre un prima e un dopo Genova anche dentro di noi.

Riprendere in mano il mio libro, quattordici anni dopo, mi ha provocato tutta una serie di emozioni contrastanti. Alcune sono prevedibili, altre sono legate alla scrittura, alla sua pratica, che negli anni muta, evolve, inevitabilmente. Si arricchisce sempre più di esperienza, di consapevolezza, si ripulisce delle scorie. O almeno dovrebbe. Oltre al fatto, – delicato, complesso – di mettersi lì a cercare di fare letteratura su qualcosa che è stato mostrato da ore e ore di riprese, raccontato da migliaia di penne. Spero che «Cosa cambia» abbia mantenuto intatta la stessa fragranza di quando uscì.

Mi pare sia un libro che è riuscito a resistere al passare del tempo, lo sguardo dell’io narrante ce l’ha fatta ad «attraversare la nebbia», come ha scritto Tabucchi nella prefazione. Sì, della sua attualità sono certo, perché in quei lunghi sei anni sono riuscito a costruire una struttura narrativa che anche tecnicamente fa di questa storia una storia sempre attuale, che si racconta e si svolge nel tempo della lettura, nel qui e ora del lettore, ogni volta che apre il libro.

Avevate vent’anni, in tanti, vent’anni fa, a Genova. Vi hanno pestato a sangue. Vi hanno fatto capire di non osare mai più a cercare strade diverse, altri mondi possibili. Ma alla fine siamo forse ancora in tanti ad avere sempre vent’anni, ad averli anche a quaranta o a sessanta. A essere ancora convinti e sicuri, eccome, che un mondo di