Nel precedente Between the Fences, avevamo lasciato Avi Mograbi nel deserto, a filmare un campo di migranti. In The First 54 Years … lo ritroviamo nel laboratorio del proprio salotto, a descrivere con le armi della finzione la logica dell’occupazione israeliana. Ma la frontalità del film precedente non è del tutto abbandonata. Il film è da un lato un documentario di inchiesta e di ricostruzione fattuale, costituito da una serie di testimonianze di ex soldati. E dall’altra una sorta di anti-filosofia pratica dell’occupazione, amministrata da un personaggio interpretato da Avi stesso che, come una sorta di moderno Machiavelli, spiega ad un principe immaginario come si fa ad appropriarsi della terra altrui. Il film è stato selezionato alla Berlinale 2021. Sarà presentato alla stampa e al mercato nell’edizione on line, e in un secondo momento, sarà proiettato nell’edizione in presenza, che dovrebbe aver luogo nel giugno prossimo… Con molti forse.

Cominciamo dai testimoni. Chi sono? E come li hai incontrati?
Faccio parte da anni dell’associazione Breaking the Silence, che raccoglie testimonianze di ex soldati dell’esercito israeliano nei territori occupati. Bts non è interessata a fare dei film nel senso artistico. Raccolgono ogni testimonianza separatamente e la archiviano. Mi avevano semplicemente chiesto di montare alcune interviste. Facendo questo lavoro, mi è venuta l’idea di cercare di creare una sorta di narrazione e di dialogo tra diverse interviste. Ovviamente, ho chiesto a Bts se fossero d’accordo con l’idea di creare un film. Abbastanza in fretta, ho capito che mancava un punto di vista più ampio. La testimonianza, per definizione, ha valore perché è ristretta ad un’esperienza. Ma questo è anche il suo limite. È così che ho pensato all’idea di aggiungere una riflessione, non solo sul come ma anche sul perché dell’occupazione. È così che ho concepito l’idea del «manuale».

E come sei arrivato all’idea di questo filosofo dell’occupazione?
Per dare senso al manuale, avevo bisogno di una sorta di esperto… Avrei potuto trovare un vero studioso dell’occupazione, uno storico o un giornalista. Ma non volevo una voce critica. Per me era più forte l’idea di un personaggio che racconta la storia dall’interno del sistema e che simpatizza con esso piuttosto che qualcuno che lo critica dall’esterno. Ora, questo tipo di persona non avrebbe mai partecipato al mio film. Non avevo altra scelta che quella di rimettermi davanti alla macchina da presa. Mi ci è voluto un po’ per mettere a fuoco il personaggio.

Somiglia al McNamara intervistato da Errol Morris in «Fog of War».
C’è una somiglianza di carattere. Ma anche una differenza di sceneggiatura. McNamara da un lato fornisce una sorta di manuale, dall’altro racconta tappa dopo tappa la storia della guerra del Vietnam. Avrai notato che il mio personaggio invece si riferisce all’occupazione della Palestina solo nell’introduzione, nella quale spiega che quello israeliano serve come caso esemplare. Il resto del tempo il suo discorso è generico. Perché la sua idea è quella di proporre un manuale valido per ogni tipo di occupazione. Vuoi annettere dei territori? Ecco come si fa. Una sorta di Machiavelli, ma aggiornato alla nostra epoca. È un po’ come quei personaggi che abbondano su YouTube e che, autodichiarandosi esperti, propongono consigli per realizzare ogni tipo di impresa. Per seguire la storia fattuale dell’occupazione della Palestina, dalla guerra del 67 ad oggi, ho invece concepito un secondo personaggio, una donna che non vediamo mai: è una voce off, neutra e asettica. Il film è costituito da questi tre livelli, l’esperto, la narratrice e le testimonianze, che non interagiscono mai, anche se indirettamente dialogano in permanenza.

Immagino che tu abbia scritto il testo del tuo personaggio parola per parola.
Certo. Ma, come mio solito, la scrittura vera e propria avviene davanti alla macchina da presa, più che sulla carta. Provo una scena. Poi vado immediatamente a vedere il risultato. Solo allora mi rendo conto se una frase, o persino una parola funziona oppure se bisogna cambiarla, o dirla con un altra intonazione o un altro ritmo… Ho girato queste scene un numero infinito di volte prima di raggiungere un risultato soddisfacente.

Come mai il tuo personaggio parla inglese?
Fa parte degli elementi che lo distanziano dalla realtà israeliana. Ma esistono tre versioni del film. Una in cui parlo inglese, destinata al mercato internazionale, una in cui parlo ebraico, per Israele. E una terza in francese. Sapendo che Arté, che è il più importante distributore associato alla produzione del film, lo avrebbe diffuso doppiato, ho deciso di fare anche una versione francese – che ha richiesto mesi di lavoro con un coach.

Hai già un distributore in Israele?
No. Come sai, i miei film sono visti molto più all’estero che in Israele. Ma non mi arrendo: il mio obiettivo resta sempre quello di diffonderli il più possibile tra il pubblico israeliano…
Chiudi la finestra! chiudi la finestra!
Oh, è la vicina della casa di fronte, secondo lei parlo a voce troppo alta… La chiudo! La chiudo!

Il pubblico israeliano non sembra molto interessato alle tue confessioni!
Forse… Ma, contrariamente alla dirimpettaia, non ha accesso ad esse. Il mio film precedente, Between the Fences, ha avuto un contributo di una fondazione israeliana. Nonostante questo, nessun canale televisivo ha voluto diffonderlo. Allora ho messo tutta la mia filmografia gratuitamente in streaming sul mio sito internet. E ho persino pagato di tasca mia un’agenzia per pubblicizzarlo sui social media.

Il tuo personaggio siede nel salone di casa tua. È il salone di tanti altri Avi Mograbi: quello che si converte al Likud di «Come ho imparato…», quello che canta in «Z32». Ti interessa quest’idea di continuità? O è solo per comodità?
Se avessi voluto, avrei potuto cambiare angolatura o camuffare il salone. È una scelta cosciente. Dopo tutto, questo personaggio porta il mio nome. All’inizio del film dico: «Sono Avi Mograbi, sono il regista di questo film ». Ma, come tutti gli altri Avi del mio cinema, non è il vero Avi Mograbi. Del resto, tutti i miei personaggi sono sempre un’invenzione o una maschera che creo per un film. E mi piaceva in effetti l’idea che questo fosse lo stesso luogo dove canto le canzoni di Z32.

Non hai cambiato l’arredamento del salone, ma hai modificato la tua apparenza…
Ho tagliato i baffi e mi sono fatto crescere un pizzetto da caprone e i «favoriti». Per costruire fisicamente il personaggio, bisogna farsene un’idea, e questo è utile poi ad interpretarlo. In questo caso, avevo come modello una certa immagine di afrikaner. Pensavo al leader del documentario di Nick Broomfield The Leader, his Driver and the Driver’sWife.

I testimoni parlano a viso aperto, tranne uno, reso anonimo con la stessa tecnica del passamontagna digitale che hai usato in «Z32». È lo stesso soldato di quel film?
È un altro soldato che ha partecipato alla stessa operazione di vendetta, la stessa notte, in un altro punto dei territori occupati. Al contrario di Z32, lui voleva apparire a volto scoperto. Sono io che ho dovuto insistere per nascondere la sua identità. Non faccio film per denunciare delle singole persone, ma per esporre uno stato di cose.

Com’è la situazione in Israele dal punto di vista dello spettacolo?
Le sale cinematografiche sono chiuse. Ma gli eventi culturali dovrebbero riprendere la settimana prossima. Invece per le sale non c’è ancora una data. Il cine-club di cui mi occupo è chiuso dallo scorso marzo, e non so se e quando riapriremo. Ora si dice che per riaprire bisogna equipaggiarsi di un sistema per verificare all’entrata chi è vaccinato per il Covid e chi no. Non so se avremo le risorse per farlo. E non so se avremo voglia di filtrare il pubblico all’ingresso!