La proiezione era sold out da giorni, l’incontro col pubblico è stato lungo , acceso, caloroso. Avi Mograbi è inesauribile, Between Fences, il suo nuovo film che dopo il Forum aprirà il prossimo marzo il festival Cinéma du Reel, segna un passaggio nel suo cinema. Per la prima volta non si parla di medioriente attraverso il conflitto tra Israele e Palestina, e lui, Avi, non è il protagonista narratore della storia. Anche se la società israeliana è molto presente tra le mura del centro di detenzione in cui sono rinchiusi per mesi i rifugiati, eritrei, sudanesi che vogliono vivere in Israele, e che invece trovano solo ostilità e pregiudizi protagonisti del suo film. Gli uomini sono detenuti, le donne e i bimbi no, cercano di sopravvivere con lavori miseri, e ogni tre mesi devono rinnovare il visto.

«Between Fences» ha una struttura abbastanza diversa rispetto ai tuoi film precedenti ma anche qui la realtà prende forma attraverso una messinscena, forse ancora più esplicita visto che siamo in un laboratorio teatrale. 

All’origine del film c’è il lavoro di Chen Alon, che è un regista teatrale impegnato con le comunità più oppresse, con i palestinesi, con gli israeliani attivisti per la pace, lui stesso è in un’organizzazione che lotta contro il conflitto israelo-palestinese… L’obiettivo del film era narrare le storie dei profughi ma non sotto forma di testimonianza, piuttosto ricreando le situazioni che avevano vissuto per renderle più vivide e accessibili. È molto diverso se su un palcoscenico qualcuno racconta un fatto o se invece vediamo ciò che è accaduto. La ricreazione dei fatti, dei vissuti di ciascuno permette di arrivare a un sentimento di verità. Non ho mai utilizzato nei miei film delle interviste con i protagonisti, penso che non siano interessanti. Tutto quanto accade in quella stanza arriva dalla realtà, poi la macchina da presa seleziona determinati passaggi. E le singole storie come quella di Howard, il soldato che vuole fuggire, diventano universali.

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Cosa ti ha portato a questo lavoro con cui sposti anche l’attenzione dalla società israeliana e dal conflitto palestinese? Pure se Israele nelle mura del centro di detenzione si profila nelle sue contraddizioni con una certa forza.

Il progetto del film comincia da un’esigenza precisa, far conoscere al pubblico israeliano la condizione dei rifugiati cercando di creare un’empatia con loro. Mi sembrava possibile costruire un sentimento comune a partire dall’esperienza della fuga, delle persecuzioni che appartengono alla memoria degli israeliani. Poi ho cambiato idea. Uno dei riferimenti principali è divenuto Cesare deve morire il film dei fratelli Taviani. È molto diverso, ma quando l’ho visto ho capito che dovevo lavorare creando un testo, e che le riflessioni su questo potevano essere la materia del film. Non in forma di documentario ma, appunto, di messinscena. Questo mi permetteva di aprire un confronto con la memoria recente dei rifugiati, con le loro esperienze. Li ho lasciati parlare mentre io sono diventato un testimone. E queste storie che il gruppo recita e rimette in scena sono condivise tra tutti. È stato un processo molto lungo anche perché non erano attori eppure riuscivano sempre a creare una dimensione comune. A un certo punto facciamo il gioco dell’attenzione, a turno ognuno doveva salire sulla sedia e rimanerci conquistando l’attenzione degli altri. È una rappresentazione del potere, è stato subito chiaro, e così tutti sono saliti interpretando un dittatore. Sono loro che hanno scelto il contenuto e il gioco è divenuto universale anche se sul momento nessuno sapeva cosa avrebbe fatto l’altro.

A parte pochi momenti, quando filmi appena fuori dal centro di detenzione, rimani interamente in un unico spazio vuoto, un’astrazione che rende le storie ancora più forti.

È un magazzino vicino al centro che è diventato il nostro teatro di posa. A volte al mattino, quando arrivavamo, dovevamo pulire perché ci dormivano i soldati e trovavamo bottiglie ovunque. Un teatro di posa è come un limbo, non appartiene alla vita reale ma è uno spazio altro in cui si possono adattare per un periodo le esperienze più diverse. Al gruppo di rifugiati si sono poi aggiunti degli israeliani, anche se abbiamo cercato di mantenere un equilibrio per non rischiare la prevalenza israeliana sugli altri.

Dicevi che all’inizio avevi pensato a un parallelo tra la condizione degli ebrei e quella degli africani arrivati in Israele. Perché poi hai cambiato?

Quando ho cominciato questo lavoro ero sconcertato. Mi sembrava impossibile che le persone intorno a me non capissero la situazione dei profughi, pensavo che quel «parallelo» potesse farli sentire più vicini. Poi ho capito che non avrebbe funzionato. E così dal medio oriente il film si è spostato a una condizione più generale, che riguarda l’Europa, e che da noi però è inaspettata. Lo stato ebraico per definizione prevede il predominio di un solo gruppo etnico, gli altri, i palestinesi, che sono originari della terra sono stati cacciati. Si può essere ebrei e democratici ma i profughi nelle nostre strade vengono visti come degli infiltrati, non si capisce perché vogliono stare in Israele.

A un certo punto però i rifugiati interpretano dei cittadini israeliani razzisti e però anche loro non credono a questo scambio.

Hanno ragione. Non possono mettersi al nostro posto e noi non possiamo metterci al loro. Se ci pensi una frase come «mettiti al mio posto» si dice infinite volte. E può funzionare in una discussione, nelle cose di tutti i giorni, ma non in una situazione come questa. Si possono capire molte cose razionalmente, e però averle vissute è molto diverso. Posso capire il trauma di una donna che è stata violentata ma non conoscere il suo dolore. Così io posso capire la condizione di qualcuno come Howard, però alla fine io parto e vado in giro nel mondo coi miei film mentre lui rimane nel centro di detenzione.