Zar Chi è un’aspirante startupper e ogni giorno non si sveglia più tardi delle 7. Da quasi un anno lavora come space manager nell’unico spazio di co-working di Yangon: Project Hub. Con gli affitti alle stelle, i black out e il costo straordinariamente esoso di Internet (anche 150 euro al mese) avere un ufficio dove rilassarsi e semplicemente lavorare non è affatto scontato.

Zar Chi ogni mattina dal lunedì al venerdì prende il treno, un vecchissimo mezzo di epoca coloniale che percorre la circolare di Yangon. Anche se il treno viaggia a una velocità media di 15 km orari, con il traffico della Yangon odierna, il percorso è più veloce che in bus.

È andata a dormire circa sei ore fa, dopo aver staccato dal ristorante notturno gestito dalla sorella. Aprono la sera e vanno avanti fino al mattino. Zar Chi dà una mano finché non è ora di riposarsi per preparasi al giorno successivo in ufficio.

Project Hub è stato fondato da due giovani australiani, impiega una giovane birmana e accoglie giovani aspiranti imprenditori.

Alle 9 si apre e si iniziano ad accogliere gli startupper, prevalentemente stranieri, che provano a inserirsi nell’altissima competizione di questi giorni birmani. «È tutto da fare», vero, ma c’è anche una marea di gente che sta entrando nel mercato.

Zar Chi per ora assiste e prende ispirazione, aspettando il suo momento per aprire una società di servizi. Qualche settimana fa si è conclusa la Settimana Globale dell’Imprenditoria, dove un gruppo di selezionati startupper ha presentato la propria idea di business di fronte ai potenziali investitori.

Qui in Myanmar non si parla d’altro: idee di business, capitali da investire, rischio, «devi avere un partner birmano», «registrarsi è il primo passo ed è il più complicato, hai presente la burocrazia birmana?», «ma tu lavori con il governo (formato prevalentemente da militari)?».

Fin qui lo scenario è curioso, chi si aspetta in uno dei paesi più poveri del sud-est asiatico di poter sorseggiare un caffè americano, preparando budget e confrontandosi con altri dinamici giovani globali con il sogno di realizzare la propria idea?

Lo scenario però diventa ricco e interessante addentrandosi nella quotidianità e nella storia di Zar Chi, la sorridente trentaduenne che ha imparato l’inglese in monastero dopo aver ottenuto la laurea in Matematica all’università. Ha seguito diligentemente l’opinione del padre, «l’inglese è la lingua più importante del mondo», anche se al World’s Buddhist Monastery avrebbe potuto scegliere di studiare italiano, giapponese, francese e altre lingue del mondo utili. Ma utili a cosa?

Quando, qualche anno fa, Zar Chi ancora non poteva immaginare che avrebbe lavorato maneggiando membership e bilanci, la scelta di studiare una lingua straniera era la scelta delle aspiranti guide turistiche. Zar Chi ha affrontato le lunghissime fasi di selezione del Ministero del Turismo e dopo aver superato ogni test è riuscita a essere parte di quel 10 per cento che a ogni concorso ottiene la licenza.

È diventata una guida turistica freelance, libera di scegliere con quali agenzie lavorare, senza legarsi a nessuna in particolare, per un salario minimo da 35 dollari al giorno. Il turismo in Myanmar è un affare stagionale però, e durante il monsone di stranieri non so ne vedono molti. Così, Zar Chi ha iniziato a guardarsi intorno, frequentare eventi, presentarsi. Ha conosciuto i fondatori di Project Hub nel 2012, quando ancora l’idea dello spazio di co-working non c’era e loro stessi erano startupper alla ricerca dell’idea giusta. Ha lavorato come volontaria per loro per qualche mese, per fare esperienza mentre la pioggia batteva incessante. Poi si sono persi di vista per una stagione e Zar Chi ha ricominciato con i tour.

Una sera, mentre aiutava al ristorante di famiglia, si è trovata davanti Allison e Pete con un’offerta di lavoro come space manager. Ha accettato entusiasta, per avere un impiego costante e poter far crescere le sue idee. Così adesso passa le sue giornate in ufficio fino alle 18, a volte facendo straordinario fino alle 19, dopodiché si risale sul treno, in un’oretta è a casa, si cambia e raggiunge il ristorante. E quando gli aerei ricominciano a scaricare le migliaia di viaggiatori desiderosi di esplorare l’ultima frontiera dell’esotico, ricomincia a lavorare il sabato e la domenica, tra pagode dorate ed edifici coloniali.

Il fixer

Nay Lin vive in una stanzetta al pianterreno invasa di libri e confusione. Il proprietario è suo zio e gliela lascia usare gratuitamente. Una fortuna, si direbbe, ma arriva insieme a doveri familiari cui non si può opporre resistenza: dopo qualche anno di pace e indipendenza, da un paio di mesi la piccola abitazione ha visto il trasferimento dello stesso zio e della nonna.

Tutte le mattine delle ultime settimane Nay Lin deve quindi svegliarsi alle sei e andare al mercato a fare la spesa per la nonna. Il rispetto dovuto agli anziani non si mette in discussione, ma spesso si accetta con profonda insofferenza. Da qualche giorno fortunatamente il ritmo è un po’ cambiato: Nay Lin ha iniziato a fare il traduttore per un giornalista che lavora come freelance per la Bbc e, per la prima volta, ha vissuto il fatidico nine-to-five, l’orario di lavoro di ufficio pagato 60 dollari al giorno.

Ne è uscito stremato, ma con l’autorizzazione morale a non svegliarsi più al grido dei corvi che accolgono il sole mattutino.

Il taxi lo lascia davanti all’ufficio e i nuovi colleghi, entusiasti di tutto, gli chiedono com’è stato il suo mohinga a colazione. Uno dei tre che compongono il team ha una formazione antropologica e gioca con convenzioni e colazione dei campioni. Il cappuccino e brioche birmano è una zuppa di pesce ricolma di aglio, zenzero, cipolline, uova, noodles di riso, fritture sbriciolate, il mohinga appunto.

La giornata da traduttore, una in un contratto di due settimane, procede tra lunghe passeggiate, ispezioni di location per progetti video, valanghe di domande su persone che Nay Lin non conosce. La questione delle risorse umane è uno dei grandi nodi del lavoro in Myanmar oggi: mancano persone formate e quindi i pochi che sanno bene l’inglese e hanno qualche esperienza internazionale si adattano, con flessibilità, a ogni tipo di lavoro. Che sia accompagnare un gruppo di ricerca dell’Università thailandese, un’organizzazione non governativa internazionale, o qualche giornalista freelance che ha bisogno di sapere tutto nel minor tempo possibile per chiudere il suo pezzo.
Nay Lin ha compiuto trent’anni il giorno di capodanno, è una mente avida e un corpo pronto all’esplosione: la sua vera vocazione è quella di artista e soffre con dannazione e speranza la vita in Myanmar.

Da anni si mantiene insegnando inglese, non è un lavoro regolare, ma gli permette di sostenere le spese di base, ovvero cibo, alcool, dvd, libri.

La famiglia aveva altri progetti in mente per lui, e ancora oggi tenta di indirizzare, o almeno capire, il percorso unico, personale, anti-sistema di Nay Lin.

La madre è venuta qualche giorno in visita dalla lontana provincia natìa. «È sempre un problema per me parlare con la mia famiglia, cerco di evitarlo». Stessi problemi a tutte le latitudini quando si tratta di spiegare la propria vita precaria, voluta o imposta da condizioni esterne. Il soggiorno del genitore ha portato con sé temibili domande sul futuro, famiglia, stabilità, in una parola progettualità, ma anche l’arrendevolezza e generosità materne: un bello smartphone gigante come regalo, forse con la speranza di sentirsi più spesso.

Nay Lin ci gioca e mostra con fragorose risate le foto di quella che chiama «la sua ragazza», ovvero una formosa asiatica in pose cliché. Come Nay Lin possa citare Foucault, quindi criticare aspramente la banalità degli altri artisti birmani per poi goliardicamente gioire con sgomitate machiste a volte è difficile da interpretare.
Ci muoviamo tra lo status di creativo precario, condizione che accomuna una fetta di questa nostra generazione contemporanea a livello globale, e la vita agra devota alle passioni di un’epoca del passato in cui l’attività creativa era dei reietti, o degli aristocratici.