Nel suo libro Io ho paura (Neri Pozza), Silvio Perrella tratta un tema difficile con un’immediatezza dello sguardo che dialoga con l’eleganza della trama narrativa. Centrale è il riferimento alla poesia di Kavafis, «Aspettando i barbari», che descrive l’attesa dei barbari a Roma. I senatori non legiferano: le leggi le faranno i nuovi arrivati. L’imperatore ha pronta la pergamena per conferire loro titoli. Consoli e Pretori sono coperti di pietre preziose e d’oro: fanno colpo.Tutt’a un tratto, l’attesa si dissolve. I barbari, non ci sono più, non verranno. «Come faremo – si chiede il poeta – adesso senza barbari? Dopotutto quella gente era una soluzione».

I barbari forse non li abbiamo mai visti, scrive Perrella, «ma allora perché abbiamo eretto le mura che circondano la città?». Sono, dice, «la proiezione delle nostre paure». Fanno comodo, si può aggiungere, per liberarsi dell’oscura percezione di poter essere agiti dalle nostre azioni, piuttosto che pensarle, progettarle. Vanità, inettitudine, legislazioni spicce hanno bisogno di essere combattute apertamente e legittimate, in silenzio, nei «barbari», che, ignari, delle nostre contraddizioni, non ci possono smentire. Succede che essi spariscano e le nostre proiezioni diventino lo specchio riflettente noi stessi.

Perrella distingue la paura che ha un nome da quella anonima. Della prima fa parte la pericolosità degli eventi naturali e degli esseri umani, ma anche l’angoscia (la paura che ha il suo radicamento in conflitti interiori). Questa paura è potenzialmente terapeutica perché è legata dalla voglia di vivere, al rifiuto di sentirsi compressi nella propria esperienza. Segnala che si debba fare carico delle difficoltà che ostruiscono le strade della propria esistenza,

L’altra paura, che Perrella definisce «industriale», rilevando il suo essere fabbricata (facendo di ogni passante in apparenza «innocuo» un potenziale dispositivo distruttivo), è il timore di vivere, la ricerca del sempre uguale che si fonda su un’identificazione inconscia con la morte (il cui potere rassicurante è inquietante). Questa paura fa vendere. Crea stagnazione, è tensione psichica e quindi domanda di sollievo. Essendo mortifera deprime e produce una ricerca compulsiva di strumenti antidepressivi. Chi la fabbrica ne è fabbricato.

Tra le due paure ce n’è un’intermedia, che è manifestazione del vivere, del rischio che contempla e misura l’apertura al mondo. Con questa paura lo scrittore siciliano, napoletano di adozione, ha un rapporto di intimità, gestita in termini di nuoto: stile libero all’andata, che si appropria della distesa marina, di dorso al ritorno: l’incertezza consapevole di sé che «si abbandona alla percezione indiretta dello spazio», rende insieme familiare e incognita la terraferma.

Perrella conclude il libro con queste parole: «La forza sradicante del vento si incurva … È già caduto un albero … Pensi come le cose sono ancorate alla terra, le case, i lampioni, noi stessi con i nostri piedi… Fermati vento malevolo e potente, risparmia le nostre radici, abbi pietà di noi. Io ho paura».

Benvenuta paura. Facci conoscere il mondo, capire le cose che amiamo. Benvenuto phobos, amico della compassione, del patire, esperire insieme, noi e gli altri noi, fatti della stessa materia, della materia dei sogni che mai mente.

Se camminando incontriamo una foglia sradicata dal suo albero – un profugo, un senzatetto, un amore dimenticato (con tanta saggezza e cura, scrisse Seferis), un’amico reso irriconoscibile dal tempo, le spoglie mortali di un nemico attese a lungo sul bordo del fiume – non calpestiamola. C’è dentro un pezzo della nostra anima.