Arrivo ad Avellino verso le nove. Per arrivarci da casa mia ci vuole un’ora di autostrada che somiglia assai poco a un’autostrada. Attraverso una provincia ancora bellissima, a dispetto del valzer delle betoniere seguito al terremoto dell’ottanta.

Avellino è più viva di tante cittadine europee. C’è una rinnovata vivacità, i buoni ci sono ancora, anche se sono attori non protagonisti. Nonostante tutti gli sfregi che ha subito è un posto comodo, al centro della Campania. In meno di un’ora si possono raggiungere posti famosi come Paestum e la costiera amalfitana, ma si può anche trovare il silenzio e la luce dell’Irpinia d’Oriente. Avellino è in mezzo all’Appennino. Il suo futuro non è la decadenza, perché non sarà la decadenza il futuro dell’Appennino.

Intanto il suo presente è molto simile a una via crucis, una città che sembra fatta apposta per dimostrare come il Sud possa sprecare le sue bellezze e le sue opportunità.

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Prima stazione

Entro in città dalla la zona del nuovo ospedale. Lo chiamano città ospedaliera. Non so chi ha costruito la struttura, non deve essere un bravo architetto. Ma il problema più grande è fuori. Arrivare al pronto soccorso è come fare una caccia al tesoro. E poi si sono dimenticati di fare i parcheggi davanti alla struttura. I lavori per porre rimedio ovviamente vanno a rilento. E così chi entra ad Avellino da questo lato subito può farsi l’idea di una città slow, ma il riferimento è ai cantieri, non al cibo.

Seconda stazione

Sono davanti al teatro Gesualdo. Anche qui l’opera ha una disegno architettonico molto discutibile, anche qui il disastro è fuori. Prima hanno cercato di recuperare dei ruderi microscopici di un castello col risultato che adesso non si notano i ruderi, ma una scala di metallo. Ora forse si vorrebbe sistemare lo spazio intorno al teatro, ma i lavori procedono per avanzamenti millimetrici. Lo spiazzo che vorrebbero ricavarne è una sorta di Aspettando Godot dell’urbanistica. Dunque il teatro si fa dentro e anche fuori, dove vanno in scena infinite repliche del teatro dell’assurdo.

Terza stazione

Piazza Macello. Qui ci sono gigantesche palazzine anni sessanta, qui c’è sempre stato e c’è ancora il punto da cui partono e arrivano i pullman. Si parla da decenni di far traslocare l’autostazione, ma non succede nulla. I lavori sono stati fatti, i soldi sono stati spesi. Questo conta, per il resto i pullman possono restare dove sono. Per spendere altri soldi hanno provato a fare una piazza. Non è venuta bene, forse gli unici a goderne sono i cani che possono fare indisturbati i loro bisogni.

Quarta stazione

Vado verso il centro della città. Qui c’è il cantiere totem, la metafora di tutti i fallimenti della politica avellinese. Difficile credere che potesse essere utile un tunnel in una città che ha meno di sessantamila abitanti. Il progetto originario è stato stravolto e la possibile utilità è ancor più diminuita. I lavori al momento sono arenati e il tunnel è solo una buca dove sono stati buttati un sacco di soldi pubblici.

Quinta stazione

Sono arrivato al corso. Questo è il centro della città, la spada dritta, la gruccia a cui è appeso tutto il resto. Qui i lavori per farne un’isola pedonale sono stati portati al termine. Un luogo molto bello, nonostante ci siano ancora molti palazzi che attendono di essere ricostruiti. L’effetto è strano. Non si vedono biciclette, gli avellinesi senza macchina sembrano creature a disagio, a parte i luminari dello struscio che parlano di sport e di politica. Avellino è una città che parla molto di sport e di politica. Le due cose hanno destini congiunti. L’ascesa della squadra di calcio alla serie A e la sua lunga permanenza nell’olimpo del calcio coincise con il fulgore dei politici irpini. Il più noto è De Mita, poi ci sono Mancino e Bianco, Gargani, De Vito. Su queste figure si è scritto molto, non è il caso di aggiungere altro, se non che sono tutti ancora in attività, a parte De Vito, sindaco del mio paese, morto senza il calore del popolo al suo capezzale. Non so quale sarà il destino degli altri, auguro a tutti lunga vita, ma ho la sensazione che il volere a tutti i costi mantenere un ruolo stia offuscando la loro opera anche agli occhi dei loro sodali.

Sesta stazione

Vado verso il centro storico e la sensazione molto netta è che non esiste. A fianco al Duomo c’è un cantiere allo stato fossile, sembra provenire da un’altra era geologica. Non ci sono negozi, non si vedono persone. Hanno ricostruito le case, ma sembra un luogo senza futuro. In tante città del Sud i centri storici hanno ripreso un bel vigore, basti pensare a Bari o a Lecce. Qui c’è solo la pessima edilizia del post-terremoto e qualche cantiere. Gli avellinesi, a parte rarissime eccezioni, sembra proprio che non ce l’hanno in testa il cuore della loro città. Una volta qui aveva sede il centro Dorso. C’è ancora, ma da quando è morto Elio Sellino, l’editore che lo dirigeva, non ci ho più messo piede. Sellino aveva una grande passione per l’Irpinia, ha fatto molte cose per valorizzarne la storia passata e per ravvivare la vita intellettuale: non si può dire che le sue imprese abbiano avuto particolari riconoscimenti.

Settima stazione

Avellino ha come propaggine due paesi che si sono saldati alla città, cumulando le loro bruttezze a quelle cittadine: al Sud i paesi di maggiore dinamismo economico quasi sempre sono i più incuranti della bellezza. La strada che va verso Mercogliano è perennemente intasata di traffico. Ogni volta che mi trovo in questo ingorgo sento che non ha nessuna logica, come se servisse solo a dare l’idea di stare in città.

Ottava stazione

Sono col mio amico Livio Borriello. Dei tanti scrittori della città è quello a cui sono più legato. Avellino non è un posto privo di talenti. Un altro mio amico è il bravissimo videoartista Antonello Matarazzo. In questo caso il riferimento alle stazioni della via crucis si giustifica col fatto che una città piena di energie intellettuali non è mai riuscita a costruire un evento culturale duraturo e capace di uscire dai confini cittadini. Artisti, scrittori, teatranti avellinesi hanno sicuramente meno attenzioni di quelle che meritano; e meriterebbero, per cominciare, che l’ex cinema Eliseo, ristrutturato da tempo, non restasse chiuso come bersaglio per i vandali; e che l’ex palazzo della Dogana trovasse la via per essere sottratto alla ragnatela dei propositi mai realizzati.

Nona stazione

Sono davanti a una costruzione vasta e pretenziosa. A vederla da lontano pare la sede di una grande multinazionale. Ti avvicini e scopri che si tratta della sede di una piccola banca. Una volta si chiamava Banca Popolare dell’Irpinia. Ha cambiato nome già una volta e sta per cambiarlo di nuovo. Non ci sono più i soldi del post- terremoto. Insomma, sono davanti a una grandeur che adesso sembra decisamente fuori posto. L’Irpinia non è diventata quello che immaginavano negli anni ottanta i notabili democristiani.

Decima stazione

Nel mio girovagare in cerca di una città che non c’è da nessuna parte, ora sono davanti alla clinica Malzoni. Anche qui un senso di decadenza. La sanità pubblica, tenuta per anni volutamente in condizioni pietose, ha fatto qualche passo avanti, e questa clinica che godeva di un prestigio immotivato, sta facendo molti passi indietro.

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Undicesima stazione

Di nuovo nel centro della città. Qui una volta c’era il carcere borbonico. Ora è uno spazio assai bello che può accogliere attività culturali. Il cruccio in questo caso è che anche quando si fa qualcosa di interessante non sembra godere dell’interesse dei cittadini. L’estate scorsa ci provò un coraggioso editore ad allestire un nutrito programma che si chiamava la Bella estate. Risposta tiepida, come tutte le cose che si fanno fuori dai recinti dello sport e della politica.

Dodicesima stazione

Ipercoop. Qui trovo molta gente. Vago tra li scaffali stracolmi di merce, non trovo tracce di prodotti irpini. Una terra che ha ancora tanti contadini non trova il modo di consumare i suoi prodotti. Anche da questo punto di vista la città ha le sue colpe. Invece di essere quello che è: una città in mezzo a montagne bellissime, un capoluogo che guarda ai suoi paesi, Avellino sembra protendersi inutilmente verso occidente, verso Napoli e Salerno, col risultato di prenderne i difetti e non i pregi.

Tredicesima stazione

Col mio amico Livio mi faccio un giro per i quartieri periferici. Rispetto ad altre città del Sud, non sembra esserci una grande differenza col centro. Il motivo è che in questo caso non è la periferia a far sfigurare il centro, ma il centro che tende a imitare la periferia. Mazzini, Valle, San Tommaso, cambiano i quartieri, ma i palazzi più o meno sono sempre gli stessi e pure le macchine parcheggiate e pure le facce della gente. Forse la nota più dolente viene dal quartiere Ferrovia dove c’è un sito di interesse nazionale da bonificare: l’ex stabilimento dell’Isochimica dove si scoibentava amianto. Amianto sotterrato dappertutto in quel quartiere, anche sotto i binari della ferrovia. Piccola consolazione: nella chiesa del quartiere c’è Il murale della pace, una pregevole opera di arte contemporanea.

Avellino è particolarmente omogenea nel suo grigiore. Più giriamo e più mi sembra di fare il giro della mosca nella bottiglia. È una sensazione che mi danno molte città, come se la grandezza e il senso dell’infinito ormai si fossero andati a nascondere nei luoghi più piccoli e sperduti.

 

Quattordicesima stazione

Passiamo davanti al mercatone. Doveva essere un contenitore di botteghe artigiane. Aperto per alcuni mesi, si è rivelato ingestibile. Architettura pessima per forma e dimensioni, costo di riqualificazione altissimo. Si aspetta solo che il tempo la trasformi in rovina.

Mi sono stancato, ho voglia di tornare verso l’altura. Lascio la parola al mio amico Livio Borriello e alla sua percezione del grigiore cittadino: Dire Avellino non è dire il nome di una città, ma quello di un posto, di una variante di luogo. Il nome Avellino non evoca nessun mondo, nessuna dimensione psichica, come accade per le vere città che hanno delle vere caratteristiche. Proprio questo però è il suo aspetto interessante, essere una città neutra, una città incolore e trasparente.

Ad Avellino individuo almeno tre caratteri mediocri, che però lo sono a un tal grado da divenire sublimi e metafisici, da farne un paradigma dell’ordinarietà: il grigiore, gli slarghi e i politici. Ha poi un aspetto che costituisce in qualche modo un varco, uno sfiatatoio visivo e spirituale: le montagne in fondo alle strade. Il grigiore è dovuto non tanto all’uso di una particolare pietra – ché questa una volta era il tufo e ora, naturalmente, il laterizio forato – ma al fatto che gli intonaci non si rinnovano, e diventano tutti del tipico colore civico sbaffato e sbavato dallo scolo dell’acqua piovana, qui abbondantissima. Ne risulta il tipico effetto per cui il celestino, il rosaceo o il giallastro si risolvono tutti nel grigio. La vibrazione cromatico-ondulatoria avellinese, arrivata nel cervello smotta inesorabilmente nei recettori del grigio.

Il testo di Borriello meriterebbe di essere citato ulteriormente, ma in questo caso spetta a me tirare le somme, non posso citare ulteriormente allegandomi alla vocazione parassitaria della piccola borghesia avellinese. Non conosco gli amministratori attuali della città, mi sembra comunque che abbiano ristabilito un minimo decenza dopo due legislature quanto meno velleitarie e incaute. Conosco qualche buon lettore, conosco quelli che si occupano di cinema, di teatro. Sento che in queste persone e nel paesaggio intorno alla città c’è una possibile traccia di futuro. Non a caso ho tenuto fuori dalle stazioni della via crucis la realizzazione di un parco lungo il torrente Fenestrelle. Una piccola opera, poco utilizzata, ma capace di indicare la vocazione verde come quella più autentica della città. Questo colore non può stare solo sulle maglie della squadra locale, deve entrare nella testa della politica. Dal grigiore al verde, in fondo, il passo è più semplice di quel che sembra.