Quando in televisione si seguono i Mondiali o gli Europei di calcio o anche una qualsiasi amichevole tra nazionali, prima, durante e dopo la partita, lo sguardo cade inevitabilmente sugli stadi gremiti e colorati di bandiere sventolate da tifosi a loro volta bardati di magliette, sciarpe, copricapo dalle tinte più o meno simili o magari in netto contrasto alle divise della propria squadra. Perché mai quando gioca l’Italia si sventola il tricolore («verde, bianco e rosso a tre bande verticali di eguali dimensioni», come indica l’Articolo 12 della Costituzione) ma si indossa una T-shirt azzurra, come quella degli undici in campo (portiere escluso)?
STIVALE IN BLU
L’Italia è una delle rarissime squadre con le divise estranee ai colori ostentati sul drappo ufficiale di ogni nazione sovrana: come dunque si spiega la discrepanza? Pochi lo sanno, stando a recenti sondaggi effettuati nelle scuole o in contesti addirittura sportivi, anche se la ragione è chiara e semplice, giacché riguarda un pezzo importante di storia moderna e contemporanea. A metà Ottocento, Carlo Alberto, a capo del Regno di Sardegna, assunto l’impegno morale di «padre della patria» attua diversi cambiamenti – a partire dal varo di una moderna Costituzione – all’interno dello Stato sabaudo, onde far proprio il Risorgimento nell’unire lo Stivale sotto la bandiera piemontese che, a questo punto, non deve più essere tale, bensì rappresentare la Nazione intera: dunque spazio al tricolore della fallita Repubblica Cispadana al posto dello stendardo azzurro con scudo biancocrociato in campo rosso. Ma sul nuovo gonfalone, lo stemma dei Savoia rimane, con il bordo blu, al centro del bianco neve tra il verde prato e il rosso fuoco. Il ricordo azzurro – il cosiddetto «blu savoia», tra poco cobalto, turchino, oltremare, più carico del celeste e meno scuro del blu di Prussia – resterà, grazie alla palla rotonda, appannaggio delle tenute unitarie per le manifestazioni sportive che internazionalmente proliferano tra l’Unità d’Italia completata e la Belle Époque sul Vecchio Continente.
Nel football – o giuoco del calcio, inaugurato ufficialmente in Italia nel 1898 con il primo campionato vinto dal Genoa Cricket and Football Club – tuttavia la prima maglia della Nazionale (1910), per l’amichevole vinta 6-2 contro la Francia, non è azzurra bensì bianca: una scelta attorno a cui si spendono fiumi d’inchiostro, senza un accordo definitivo: per alcune fonti, risulta in onore del team piu forte, ovvero la Pro Vercelli del calcio totale (in anticipo di mezzo secolo sull’Olanda di Cruyff) e dei «sei» scudetti consecutivi (di cui il quarto «scippato» però dall’Internazionale); per altre fonti invece non è che un ripiego neutro al blu dei Transalpini. Già nel 1911 l’Italia adotta la camiciola azzurra con un’insegna sul petto, non ancora tricolore, ma con il già nominato pelta biancocrociato. Durante il fascismo, vicino allo scudetto è cucito il fascio littorio, mentre la seconda maglia (ancora bianca) viene sostituita da un completo nero imposto dal Duce in persona, quale sinergia con i feticci della dittatura; a tale proposito, durante un governo Berlusconi, alcuni ex missini chiedono di ripristinare il nero per le maglie di riserva, ma l’opposizione fa quadrato e l’unica concessione «nostalgica» resta il tre pezzi del Mundialito 2007: maglia celestina, calzoncini marroni e calzettoni marroni con bordo celestino, in omaggio alla Coppa Rimet 1938 vinta da Piola e compagni: peccato che il marrone sia un clamoroso falso storico, come ampiamente documentato da immagini e testimonianze dei superstiti.
Nel dopoguerra, con la nascita della Repubblica Italiana, qualcuno propone il ritorno al bianco o comunque la sostituzione del blu savoia politicamente compromesso, ma alla fine prevale il ricordo affettivo, nella variante dello scudettone tricolore sul petto. Da allora cambiano le tonalità dell’azzurro quasi sempre intenso e tendente a un blu classico, con le sole aggiunte dei bordi del colletto e delle maniche, che rimandano sempre al verde-bianco-rosso e, in un caso, al bianco-oro quale simbolo di esaltazione olimpica.
TINTE FINTE
La maglia non è tutto: la divisa in campo riguarda i calzoncini, i calzettoni, gli scarpini: questi ultimi di cuoio nero per quasi un secolo, vantano di recente un’impennata verso materiali, fogge, tecnologie, colorazioni, tra le più originali, senza indicazioni nel regolamento, ragion per cui oggi abbondano, all’interno di una stessa formazione, le tinte più eterogenee: un calzaturificio addirittura propone, con successo, un paio di scarpe di cui una fuxia e l’altra gialla. Osservando invece le foto o i filmati della Nazionale italiana sino al 1955 spicca il bianco dei pantaloncini e il nerazzurro dei pedalini: scelta priva di legami simbolici o culturali con la storia del paese o dello sport, ma semplicemente dovuta all’industria manifatturiera che all’epoca – come per altri oggetti dagli ombrelli agli abiti maschili – produce un numero ristretto di varietà cromatiche, basandosi su una sorta di galateo vestimentiario sportivo da ricondurre altresì a ogni tipo di disciplina agonistica.
Come per anni ad esempio nel tennis vige il solo colore bianco per una semplice questione di etichetta formale – in altre parole francesi e britannici ritengono volgari le divise colorate – così nel calcio l’accostamento ai colori delle maglie, per calzoncini e calzettoni, riguarda solo il nero e il bianco (ritenuti toni neutri e non a caso usati solo da Casale, Pro Vercelli e Spezia tra le squadre scudettate). Alla stessa stregua la tenuta dei portieri è completamente nera fino agli anni Cinquanta, con l’unica possibilità di adoperare un colletto dai colori sociali della propria équipe; e un analogo discorso riguarda gli arbitri – una volta soprannominati dai cronisti «giacchette nere» – con un tabù caduto soltanto ai mondiali di Usa 1994 grazie all’arrivo di giubbini con tinte pastellate di solito estranee ai colori nazionali (rosa, verdino, ocra, turchese, bluette).
SCEMPIO FRANCESE
Tornando invece agli spalti inquadrati dalle telecamere per i Mondiali o gli Europei, al di là del caso anomalo dell’Italia – simile alla sola arancione Olanda dove la dinastia Orange però ancora regna – non si spiega la discrasia soprattutto fra le bandiere a tre colori – la maggioranza su tutto il pianeta – e le recenti guise calcistiche a mono e bicromie: l’esempio più clamoroso resta la padrona di casa, la Francia, agli Europei dei mesi scorsi: assenti i calzoncini bianchi che assieme alle maglie blu e ai calzettoni rossi formano il tradizionale veneratissimo tricouleur (votato in diversi sondaggi internazionali come la bandiera perfetta per geometrie e cromatismi).
Nel respingere l’indignazione popolare che grida allo sfregio della bandiera, alcuni media «distratti» giustificano lo scempio, citando il nuovo regolamento internazionale che vieterebbe più di due colori (ovviamente diversi) per ogni squadra in campo.
Ma a ben vedere si scopre che il bianco è finito sulle divise dei tre portieri convocati, risolvendo arbitrariamente un problema in apparenza frivolo su cui Fifa, Uefa, Federazioni nazionali, dovrebbero mostrarsi intransigenti nel rispetto dei patrii vessilli e della Storia con la S maiuscola.
È pur vero che i dirigenti, di fronte alla corruzione dilagante, hanno altro a cui pensare, ma anche questa «storpiatura» cromatiche verso chi scende in campo è un’azione subdola di mistificante falsificazione, un po’ come quando, sempre con un governo Berlusconi, si cerca di rinnovare gli arredi governativi con bandiere oliva-panna-amaranto. Far giocare, per «ragioni» di sponsor o merchandising, i francesi in blu-blu-rosso è negare il rispetto di un’identità anche calcistica nei confronti di ciò che, per definizione, resta «il gioco più bello del mondo».