Non c’è un dossier che il governo sia riuscito a chiudere. Tanti annunci, nessun atto. Ancor meno conclusivo. Da Autostrade all’ex Ilva, dalla rete unica per la fibra alle tantissime crisi industriali (Blutec, ex Embraco, Betafence, ex Alcoa) per non parlare di banca Montepaschi, il governo è ancora alla ricerca della soluzione definitiva.
Le attenuanti ci sono – si tratta di dossier complessi che si trascinano da anni e se non da decenni – ma la pandemia ha permesso l’entrata in campo di un attore inedito per il nuovo millennio – lo Stato con tutte le sue emanazioni: Cassa depositi e prestiti, Invitalia, Fondo innovazione – che avrebbe dovuto semplificare di molto la situazione. E invece neanche l’ingresso pubblico in aziende strategiche riesce a essere semplice nel nostro paese.
L’esempio più lampante è Autostrade. Sono passati due mesi e mezzo dall’annuncio di Conte: «Fuori i Benetton, dentro Cassa depositi e prestiti». Mercoledì è scaduta anche la data limite del negoziato con Atlantia. E invece toccherà aspettare altri dieci giorni per vedere cosa deciderà il consiglio dei ministri. L’ipotesi di revoca delle concessioni torna in auge anche da parte della ministra Paola De Micheli che invece a luglio era stata la più convinta a trovare una mediazione.
Ma senza certezze la società ancora controllata dai Benetton ha gioco facile a comportarsi come ha fatto ieri. Un esposto alla Consob che chiede «di valutare urgentemente i provvedimenti da adottare a seguito delle dichiarazioni rilasciate a mercati aperti dai De Micheli e Patuanelli che hanno determinato la sospensione per eccesso di ribasso». Il titolo Atlantia ieri in Borsa è stato sospeso con cali teorici che hanno raggiunto la doppia cifra, per poi essere riammesso alle contrattazioni chiudendo con un meno 2,1%.
Atlantia in più svela che le minacce di revoca «risultano in aperto contrasto con la clausola contenuta nell’atto transattivo», dove il Mit dà atto che «non sussistono le condizioni» per formulare «contestazioni di inadempimento». Atlantia smentisce poi di non avrebbe rispettato l’accordo del 14 luglio: «l’impegno a dismettere Aspi risulta infatti espressamente confermato» dal processo di scorporo da Atlantia, avviato il 4 settembre.
Sull’ex Ilva – e già il fatto che i media tornino a chiamarla così e non Arcelor Mittal Italia dà l’idea della confusione – la situazione è molto più intricata. Anche qui da mesi lo stato dovrebbe entrare nel capitale per cambiare la governance e soprattutto il piano industriale.
Ieri, dopo settimane di richieste inascoltate, i sindacati hanno potuto ascoltare dalla viva voce di Domenico Arcuri lo stato dell’arte sull’ingresso di Invitalia. Il commissario per l’emergenza Covid infatti ha mantenuto il suo inamovibile ruolo di capo assoluto della società chiamata a risolvere le crisi aziendali. In un ritaglio di tempo fra i bandi per le nuove terapie intensive e quelli per la scuola, Arcuri ha cercato di rassicurare Fim, Fiom e Uilm sul futuro degli stabilimenti di Taranto, Genova e compagnia. La trattativa «non avrà bisogno di un tempo molto lungo per concludersi», sebbene la data prevista sia il 30 novembre. «Esiste una convergenza del governo in tutte le componenti senza piani intermedi e provvisori». Arcuri promette poi che Taranto «deve operare con tutte le innovazioni necessarie al regime produttivo che gli spetta». Insomma, politichese puro se non fosse per la rassicurazione riguardo «la trattativa sindacale sarebbe vincolante».
Il tutto però in totale assenza di Arcelor Mittal e di Morselli che dovrà accettare l’ingresso e soprattutto la nuova strategia verde e l’aumento di produzione rispetto all’attuale calo generalizzato con annessa cassa integrazione per gran parte dei dipendenti. Mentre in caso di addio di Arcelor – a novembre se ne può andare pagando solo 500 milioni – trovare un partner industriale che la sostituisca è al limite dell’impossibile.
Se una lezione si può trarre dall’attuale situazione è che il «nuovo capitalismo di stato» è troppo confusionario e sfilacciato. Servirebbe, se non l’Iri, almeno una agenzia unica che possa realmente rilanciare una politica industriale. E che a pagare per i ritardi al solito saranno i lavoratori: gli 11mila dell’ex Ilva e i 7 mila di Aspi.