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«Autoritratto» contro l’inerzia della materia

«Autoritratto» contro l’inerzia della materiaUna sala della mostra "Lucio Fontana. Autoritratto" alla Fondazione Magnani-Rocca, Mamiano di Traversetolo, Parma

A Mamiano di Traversetolo, Fondazione Magnani Rocca, "Lucio Fontana. Autoritratto", a cura di Walter Guadagnini, Gaspare Luigi Marcone e Stefano Roffi Lucio Fontana, una piccola selezionata mostra nella villa vicino Parma pensata sul rovescio del celebre libro-intervista di Carla Lonzi, 1969: dove, fra gli artisti convocati, lo Spazialista era il più âgé. Il dorato "Fiocinatore" si smaterializza fondendosi con le coeve sculture astratte, puri segni grafici metallico-ambientali o tavolette di ceramica finemente graffite...

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 1 maggio 2022
Claudio ZambianchiMAMIANO DI TRAVERSETOLO, PARMA

La mostra inauguratasi il 12 marzo scorso alla Fondazione Magnani Rocca di Mamiano di Traversetolo, non lontano da Parma, si intitola Lucio Fontana. Autoritratto (a cura di Walter Guadagnini, Gaspare Luigi Marcone e Stefano Roffi; fino al 3 luglio). La parola «autoritratto» non è usata in un’accezione generica, ma ha un riferimento preciso al libro del 1969 di Carla Lonzi dove l’autrice, sul discrimine della sua vita intellettuale e non solo, prima di abbandonare la critica d’arte e di abbracciare la militanza femminista, dà voce all’autoritratto plurale di un novero di artisti appartenenti alla schiera più innovativa dell’arte italiana del momento, il più anziano dei quali è proprio Lucio Fontana. Il libro di Lonzi è l’esito del montaggio di numerose interviste, registrate in momenti diversi con il magnetofono, alcune già pubblicate sulla rivista «Marcatré», altre inedite. Il testo scritto mantiene tutta la vivacità del parlato, che maschera la sofisticata operazione di collage messa in atto da Lonzi per dare vita a un libro coerente e unico nella critica d’arte, non soltanto italiana, del ventesimo secolo. Che la mostra sia stata pensata sul rovescio dell’intervista è reso esplicito nella prima vetrina, in cui al catalogo è affiancata la prima edizione di Autoritratto, dove in copertina campeggia un taglio di Fontana. La trascrizione integrale della registrazione da cui derivano gli estratti rimontati nel libro è pubblicata in catalogo (Silvana Editoriale; testi dei curatori, di Paolo Campiglio, Mauro Carrera, Lara Conte e Maria Villa), in una versione aggiornata a cura di Campiglio.
Il percorso della mostra è costruito su un numero non grande di opere, molto ben scelte, prevalentemente fra le collezioni della Fondazione Lucio Fontana di Milano e quelle del CSAC dell’Università di Parma, cui Fontana aveva lasciato un nucleo importante di lavori, fra cui Il fiocinatore (1933-’34), figura maschile nuda, di eleganza quasi ellenistica, dall’epidermide dorata, così da riflettere la luce per smaterializzarsi e fondersi con l’ambiente. Vista di lato la scultura trasmette il senso di una figura in moto: peso e stabilità, caratteri abitualmente associati alla scultura, si stemperano così in un’opera che porta con sé un’acuta nostalgia del passato. Allo stesso tempo – nella mobilità e nella qualità luminosa – Il fiocinatore fa da contraltare figurativo alle coeve sculture astratte, pensate come un puro segno grafico metallico sviluppato nelle tre dimensioni dello spazio, oppure come sottili tavolette di ceramica, sagomate e graffite con una traccia disegnativa dinamica e sottile.
Altre opere vengono poi da collezioni private, come il Concetto spaziale. Attese (1961), con quattro tagli eleganti e dissimmetrici, della collezione Barilla, tutto diverso dall’altro, più grande, ancora bianco, ma con un’unica fenditura verticale, del 1965, proveniente dal Museo Novecento di Firenze, non enorme, ma di vocazione quasi ambientale.
Quest’ultima dimensione, che la mostra ha potuto richiamare solo con alcune opere di media e grande scala, è uno dei punti di maggiore novità nel lavoro di Fontana del secondo dopoguerra e si esprime negli «Ambienti», a partire da quello a luce nera del 1949, dove la materialità del lavoro si attenua sin quasi allo zero e, con un’intuizione radicale e anticipatrice, l’opera coincide con l’esperienza che si fa di essa. Lo spazio dell’opera diventa spazio vissuto e la temporalità l’ingrediente principale attraverso cui Fontana oltrepassa i canoni della scultura e della pittura.
Nei lavori non ambientali l’artista fora o taglia la superficie, scava il blocco plastico o ne annulla il peso con la doratura o il colore; gioca sulle infinite rifrazioni della luce sulla complessa epidermide delle ceramiche invetriate. La nozione dello spazio di Fontana si costruisce via via che l’artista lo esplora e in questa indagine ha un ruolo essenziale il segno, che nel suo lavoro non ha una qualità gestuale, ma una funzione progettuale (amava dire Enrico Crispolti) e di verifica. Uno dei passaggi più toccanti dell’intervista a Lonzi è quella dove Fontana riflette, da artista, sulle immagini del suolo lunare rese note dalle esplorazioni spaziali: «Arriva l’uomo, in un silenzio mortale, in questa angoscia, e lascia un segno vitale del suo arrivo». Il dinamismo del segno, qualità che gli fa amare il barocco e il futurismo, ha quindi in Fontana una qualità originaria: è indizio di una presenza attiva, della vitalità umana opposta all’inerzia della materia.
Nella sala ove è ospitato Il fiocinatore il segno è declinato in una fenomenologia variabile che va dall’apertura terrestre e cupa scavata nel corpo delle Nature, ai buchi aperti sulla superficie del Concetto spaziale su latta del 1950, di un grigio opaco e lunare, pieno di asperità, ai solchi ricavati a forza di martello e scalpello sulle grandi superfici di rame del [Concetto spaziale] New York 10, del 1962, eseguito dopo il viaggio americano compiuto l’anno precedente in occasione della personale alla galleria di Martha Jackson, dove lo sfarfallio della luce prodotto dai margini slabbrati dei segni evoca i riflessi luminosi sul vetro dei grattacieli. Il fascino di Fontana per la città, lui che veniva (ci tiene a dirlo) dagli spazi sconfinati delle pampas, riporta al futurismo e al tema della metropoli, evocato anche nei tanti lavori al neon.
Nella conversazione con Lonzi Fontana accenna anche alla collezione di opere di artisti, tutti più giovani di lui, che aveva riunito nel tempo, sin da quando, sottolinea, non aveva di che mettere assieme il pranzo con la cena. Parte di questa raccolta è esposta nell’ultima sala della mostra. Ci sono lo Studio per «Lo strappo», del 1952, di Alberto Burri, acquistato alla Biennale di quello stesso anno; una Superficie scura di Enrico Castellani, del 1959; opere di Paolo Scheggi, Luciano Fabro e Giulio Paolini. E poi la Linea m 9,48 (1959) di Piero Manzoni, l’artista, scomparso nel 1963 a ventinove anni, che Fontana sentiva più di ogni altro consono a sé e più avanti di tutti. Di fronte alle linee di Manzoni, quelle di Pollock gli sembravano volgari.
Nelle sale della mostra sono raggruppate anche molte delle fotografie scattate da Ugo Mulas a Fontana, ripreso ad esempio mentre, in abiti eleganti, simula l’atto di fendere la tela con un taglio. Le immagini di Mulas sono solo un episodio, straordinario, della storia vasta, complessa e interessantissima del rapporto tra Fontana e la fotografia.
All’uscita della mostra, la piccola Testa di ragazza del 1931 guarda il pubblico dal piano della console piranesiana a motivi egizi posta davanti alla grande e magnifica Sacra Conversazione giovanile di Tiziano e invita a esplorare le opere raccolte negli anni da Gino Magnani: il grande Goya, la Madonnina di Dürer, il San Francesco di Gentile da Fabriano, la Tersicore di Canova, i De Pisis… Dei tanti Morandi per il momento se ne possono vedere solo cinque: gli altri sono in mostra in Spagna

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