Reduce dal Festival cinese di Macao e subito in partenza per Brooklyn, dove risiede da anni, l’attrice tedesca Barbara Sukowa, 70 anni il 2 febbraio prossimo, è stata l’ospite d’onore di Les Arcs Film Festival che le ha reso omaggio con una mini-personale, una masterclass condotta dai giovani del parigino Horschamp e l’anteprima francese dello splendido Deux, di Filippo Meneghetti, distribuito in Italia da Teodora, promosso ora ai Rendez-vous di Unifrance con incontri con il regista e le altre due interpreti, Léa Drucker e la straordinaria Martine Chevallier della Comédie Française.
Che emozione, Barbara, ritrovarla in «Deux», donna sempre infuocata, mai arresa.
Un personaggio non esiste in sé. Lady Macbeth non è altro che un accumulo di parole. È l’interprete che, dentro quell’involucro verbale, deve rovesciare tutta sé stessa. Incarnare, identificarsi: un gioco che a volte sfiora la perversità.
Ruolo aspro e dolcissimo, in «Deux», nido scombussolato d’una salda coppia lesbica. Altro passettino avanti nell’emergenza femminile sugli schermi?
Nelle megaproduzioni, molte attrici son solo un grazioso contorno. È il cinema indipendente che ci riserva ruoli interessanti. Pure nelle nuove serie tv i personaggi femminili trovano più polpa psicologica.
Anche nel grande cinema d’autore, la donna è spesso centrale.
Non so in che misura il cinema di autori come Fassbinder o Cronenberg (che mi ha diretta in M. Butterfly) o Lars von Trier (il suo Europa nel ‘90) sia in direzione dei diritti della donna. I grandi personaggi femminili in cinema e letteratura sono stati forgiati a partire dalle donne o, viceversa, le donne si sono modellate su letteratura e cinema? È un’interazione non da poco, che dice? Fassbinder ci ha sempre ritratto con una certa finezza. In lui non c’è ‘realismo domestico’ ma un’idealizzazione della donna. E l’ha fatto in un periodo in cui charme e seduzione non erano in voga in Germania, dove la donna si batteva per un riconoscimento intellettuale.
Come vi siete incontrati?
Nel modo più disastroso. A Francoforte, vicino al teatro dove lavoravo, c’era un ristorante, aperto fino alla 3 di notte, dove si beveva in abbondanza. Il regista mi s’avvicina e mi provoca coprendomi d’insulti, poi si lascia andare a lunghe confidenze personali. Son passati anni prima che ci rivedessimo. Mai parlato di quella notte, ma mi ha proposto due film di fila, Berlin Alexanderplatz, 1980, e Lola, 1981, tassello della sua trilogia con Il matrimonio di Maria Braun e Veronika Voss, dove la donna sembra stare al gioco di come la società la fa sentire: una mercanzia.
Lola-Angelo Azzurro. Mai stata tentata da richiami a Marlene Dietrich?
No, Marlene è attrice inimitabile. Ha un’aura unica, sprigiona un erotismo tutto suo. Ho interpretato Lola cercando di farne una businesswoman. Con buona pace di Fassbinder, che non ha mai tenuto conto delle mie idee sul personaggio. Eppure mi aveva persino invitata a pranzo per ascoltare quel che ne pensavo. In certi film è necessario che ci sia uno scambio di idee tra interprete e regista. Evitando però di esserne torturata, com’era fama che facesse Fassbinder con alcuni dei suoi attori. Io no, devo essere amata.
Come si lavorava con Fassbinder?
A cento all’ora. Era velocissimo, ben organizzato. Mentre girava una sequenza preparava già la successiva. Drogato, ubriaco? Mai sul set. Se, da quel che si sa, si drogava e ubriacava, era prima o dopo le riprese. Con lui, mai un secondo ciak. Sempre ‘buona la prima’. Per noi attori, dunque, una sola chance. Il che mi piaceva molto ma richiedeva a ognuno il massimo di concentrazione: non ti potevi permettere di sbagliare, di saltare una battuta. E dovevi saper improvvisare. In Lola, quando scendo dal palco dopo lo strip-tease, ho avuto quest’unica indicazione: ‘Alla fine della tua camminata, finisci a cavalcioni del tuo amante’.
Com’è iniziata la sua carriera di cantante, parallela a quella d’attrice?
Proprio con Lola, dove danzo e canto. Vedendomi nel film, lo Schoenberg Ensemble mi propose due anni dopo il Pierrot Lunaire di Arnold Schoenberg: enorme difficoltà per chi come me non ha una formazione nella musica classica. Fino allora era interpretato da cantanti d’opera, nonostante la prevalenza di voce recitante: è stata la prima volta di un’attrice in quell’opera; e la mia prima volta d’un percorso nella musica classica, come cantante e voce narrante, che mi ha portata in ogni angolo del pianeta: ogni volta guidata da ‘bacchette’ prestigiose, come Claudio Abbado, che mi ha diretta in Pierino e il lupo di Prokofev e A Midsummer Night’s Dream di Mendelssohn. Una vita musicale, sempre a fil di nervi, intrecciata a cinema e teatro, con altri classici come Giovanna d’Arco al rogo d’Arthur Honegger o L’Opera da tre soldi di Kurt Weill, che nella versione teatrale di Brecht ho interpretato nell’86 anche a Parigi, al Théâtre du Chatelet, per la regia di Giorgio Strehler.
Pure sullo schermo, come sulla scena, ha dovuto affrontare grandi sfide?
Sì, in almeno due casi: Rosa Luxemburg, la militante socialista assassinata nel 1919, e Hannah Arendt, la scrittrice e filosofa anti-Olocausto, nei film di Margarethe von Trotta. Per il primo sono stata premiata a Cannes nel 1986, il secondo l’abbiamo portato insieme in anteprima al Bif&st di Bari 8 anni fa. Mettersi nella pelle d’un altro è stupendo, un privilegio che hanno solo gli attori. Ma è un’angoscia interpretare persone realmente esistite e, in più, intellettualmente superiori. Anche la regista aveva una gran paura. Tra l’altro ha dovuto penare non poco per impormi nel ruolo della Arendt. La produzione, soprattutto Arte, non mi voleva, perché non sono ebrea e somaticamente non le somiglio. Ma non è l’esteriorità, la pedissequa replica mimetica che rende credibile un personaggio. L’interpretazione non dipende dalla faccia.
Protagonista da mezzo secolo : cambiato qualcosa, nel cinema o in lei?
Quando ho cominciato, con Margarethe (nell’81, in Anni di piombo), con Fassbinder o Von Trier, ero, come loro, ‘révoltée’, mi sentivo una militante. Giovane e ribelle: con dure prese di posizione, idee drastiche. Volevo – e ci credevo – un cinema in grado di cambiare il mondo. Lola era una sopravvissuta del nazismo. Dopo la guerra, tutto era stato distrutto perché tutto era stato idealizzato: la gente credeva in Hitler. Dopo la caduta del Muro, nell’89, è stata l’ora degli avvoltoi, del profitto da una parte e dall’altra, in Russia come in Germania: tutti febbrilmente al lavoro per far tacere le coscienze, rimuovere i sensi di colpa, nasconder la vergogna sotto la cenere. Oggi, 50 anni dopo i miei ideali, le mie battaglie, non sono, da anziana, più saggia, ma meno rocciosa, più liquida. E ho fatto mia la domanda della Arendt : «Chi sono io per giudicare?»