Via di Grotta Perfetta 315. Dopo quindici anni di trattative, perizie comunali, anticipi alle ditte appaltanti per il valore di 300mila euro, Roma Capitale decide di terminare il progetto di autorecupero riguardante una ex scuola stanziando 500mila euro per la sua demolizione: 800mila euro per lasciare inutilizzato uno stabile, sancendo l’ennesimo fallimento delle politiche abitative nella città di Roma.

Una città dove permangono, secondo i dati Asia-Usb, circa 50mila famiglie in emergenza abitativa, che non possono accedere al mercato privato degli affitti né tantomeno pensare di acquistare la propria abitazione, a fronte del costante aumento del patrimonio immobiliare – pubblico e privato – lasciato sfitto dal mercato o dalla pubblica amministrazione (sempre secondo i dati del sindacato, nel 2010 gli alloggi sfitti a Roma erano più di 200mila). Un trend in perfetta linea con l’andazzo nazionale poiché, secondo i dati Istat relativi all’ultimo censimento del 2011, in Italia ci sono ben 7milioni di case vuote, pari al 22.7% del totale nazionale.

Al Comune di Roma risultano 42 mila alloggi destinati ad edilizia residenziale, popolare o agevolata, secondo l’ultima valutazione del proprio patrimonio facilmente consultabile sul proprio sito. L’autorecupero di parte del patrimonio pubblico inutilizzato è ancora, in teoria, uno degli strumenti potenziali con cui Regione e Comune dovrebbero affrontare la penuria di alloggi disponibili a Edilizia Residenziale Pubblica.

Nei fatti, quindici anni di esperienza gestionale hanno affossato un modello all’avanguardia per il recupero attivo e qualificato del patrimonio pubblico; esperienza che in altri contesti europei ha invece costituito uno degli strumenti privilegiati nell’attuazione di politiche abitative in grado di rispondere a differenti esigenze sociali.

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L’autorecupero è di casa
La prima esperienza di autorecupero risale al 1982 quando, a Bologna, la giunta comunale pubblicò un bando per il recupero di alloggi abbandonati nel centro storico. La storia più recente ci porta invece a Roma, dove i cicli di lotta dei movimenti per il diritto all’abitare strappano nel 1998 la legge regionale n.55 sull’autorecupero del patrimonio immobiliare, cui segue nel 2001 il protocollo d’intesa tra Comune di Roma, Regione Lazio e Ministero delle Infrastrutture per l’acquisto e la costruzione di alloggi popolari per 1500 famiglie.

Si trattava di un finanziamento destinato in parti uguali al bando comunale, all’assistenza alloggiativa (i famosi residence su cui poi si sono innestate le ben note speculazioni) e all’emergenza abitativa di chi viveva in occupazione; e proprio all’interno di quest’ultima quota-parte rientravano i sei progetti di autorecupero che ancora oggi sono oggetto di discussione tra movimenti e istituzioni.

«L’autorecupero rappresenta una buona idea che, nelle precedenti gestioni comunali e soprattutto durante la giunta Veltroni, ha riscontrato un deficit di rispetto in confronto a quello che avrebbe potuto produrre», ha dichiarato a Il Manifesto Massimiliano Smeriglio, vice-Presidente della Regione Lazio. «Sono orientato a credere che durante questi anni le amministrazioni siano incorse in difficoltà operative perché non avevano idea di come porsi di fronte a questi strumenti innovativi. In Regione stiamo costruendo un percorso importante (quello relativo alla delibera quadro, ndr) che tiene in considerazione il tema dell’autorecupero, oltre ad una valutazione sull’emergenza casa che comprende anche le diverse occupazioni con finalità abitative. Sono temi che stiamo trattando sia con i movimenti che con la Prefettura», ha detto, rimandando dunque il discorso al futuro prossimo quando la proposta di delibera finirà al voto del Consiglio Regionale.

Nei fatti, l’accordo proposto dai movimenti per il diritto all’abitare era e continua a rimanere semplice: invece di costruire nuove case popolari in un territorio già eccessivamente cementificato, trovare l’intesa per il recupero di immobili di proprietà pubblica che però giacevano inutilizzati o comunque sottratti a processi di valorizzazione non privati. Il Comune amplierebbe il proprio patrimonio immobiliare (valorizzandolo, perché sottratto all’incuria o a situazioni di illegalità) rispondendo alla necessità di alloggi popolari o a canone concordato.
Un processo tanto lineare quanto inviso alle logiche contorte delle politiche abitative cittadine: l’abbattimento dei costi del mercato degli affitti e delle vendite degli immobili sarebbe un’inversione di tendenza rispetto agli assetti che si sono cristallizzati al Campidoglio nel corso degli ultimi 20 anni.

Cosa succede in Europa
Fuori dai confini nazionali, nei decenni Settanta e Ottanta l’Europa ha visto crescere e ramificarsi il fenomeno della riappropriazione indiretta di salario attraverso l’occupazione degli immobili abbandonati. In Olanda, in particolare ad Amsterdam, il recupero di immobili pubblici abbandonati nella zona portuale era stato un modello per fronteggiare la crescente crisi alloggiativa della nazione (come accaduto al canale Entrepotdok, sede di 82 ex-magazzini marittimi).

Qualcosa di simile accadde anche in Germania e soprattutto a Berlino, dove l’amministrazione locale tentò di immaginare strategie volte alla regolarizzazione dei processi di occupazione, concentrandosi soprattutto su quelli di immobili i cui proprietari erano fuori dal paese o comunque difficilmente rintracciabili, trasformandoli in progetti abitativi speciali (hausprojekt) o in forme abitative neo-comunitariste come le “abitazioni collettive” (le famose WG, Wohngemeinschaft).

Le forme di autorecupero dell’Europa centrale rimasero tuttavia esperienze isolate. In paesi che nei decenni successivi avrebbero visto progredire nuove forme di sostegno al welfare, il recupero di immobili pubblici per fronteggiare l’emergenza abitativa fu una meteora che non sopravvisse al nuovo millennio.

Di queste esperienze, oggi, rimangono tracce discontinue, per lo più legate all’incessante ricerca di innovazione architettonica e meno attente ai processi di inclusione abitativa: insomma, una versione modaiola del recupero del patrimonio pubblico.

Il futuro dell’abitare
Abitare è oggi un processo di appropriazione nei confronti di un territorio, ed il grado di appartenenza al territorio rappresenta un fattore di qualità dell’abitare stesso. All’interno di questo ragionamento devono individuarsi pratiche e politiche dell’abitare che si relazionino più di altre con il territorio in cui si sviluppano, dando risultati importanti anche in termini di integrazione e coesione sociale.

Bisogna però interrogarsi se queste pratiche alternative siano interpretabili anche come pratiche di pubblico e di cittadinanza, ossia se la costruzione del proprio senso di appartenenza ad un territorio (attraverso la produzione di pubblico) possa essere intesa come collante per l’ottenimento di diritti di cittadinanza.

È sicuramente questa la sfida più grande sulla quale Roma deve misurarsi nel suo futuro più prossimo, fuggendo le sirene ammaliatrici della prossime elezioni.