Il rapporto Svimez 2019 su L’economia e la società del Mezzogiorno presentato alla camera, e una trasmissione di Report – Openpolis sull’autonomia differenziata hanno dato conto del devastante divario Nord-Sud. Per gli addetti ai lavori non emergono particolari novità. Salvo una.

La censurabilissima pretesa di regionalismo differenziato ai sensi dell’articolo 116 Costituzionale avanzata da Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna ha finalmente reso l’opinione pubblica consapevole di temi che gli interessati – complice la ex ministra leghista Stefani – avevano cercato in ogni modo di passare sotto silenzio.

Viene in ampia misura smentito il mantra del Sud sprecone e male amministrato, quando non malavitoso, volto a succhiare il sangue del virtuoso e operoso Nord. Lo diciamo senza voler fare sconto alcuno alla lotta a corruzione, clientelismo, mala amministrazione. Al tempo stesso, è provata la vacuità del progetto politico che con l’autonomia differenziata vorrebbe staccare la parte più efficiente del paese per agganciarla all’Europa dei forti. E finalmente emerge anche sulla grande stampa nazionale la tesi che l’unica vera scommessa vincente per l’Italia è contrastare il divario Nord-Sud. Se affonda il Sud, in prospettiva affonda l’Italia.
In tale contesto, sembrerebbe utile per il governo fare un investimento politico, tra l’altro utile a bilanciare l’egemonia leghista ormai consolidata nel Nord. Nel Mezzogiorno – presto o tardi che sia – si deciderà chi vince e chi perde nel paese.

Non a caso, Salvini ha già avviato nel Sud una campagna che si preannuncia aggressiva e incalzante.
Invece, la recitazione del primo attore – il ministro PD Boccia – si mostra debole e incerta. Ha cominciato con un pellegrinaggio tra gli aspiranti separatisti, ha ripreso le trattative riservate con le singole regioni, senza alcun confronto generale, in parlamento o altrove, e senza dare trasparenza a obiettivi, metodi, contenuti. Al tempo stesso, ha invitato tutte le regioni a richiedere la maggiore autonomia, senza garantire parità di condizioni rispetto alle prime. Da ultimo, vuole «nell’interesse del paese» fare l’autonomia con i voti della Lega. Ha istituito una commissione in cui ha chiamato l’ex governatore Maroni e Bertolissi, costituzionalista e principale consulente di Zaia. Per governare il processo avviato ipotizza due strumenti principali: una legge quadro, per tenere in un contesto unitario tutte le regioni, e i livelli essenziali delle prestazioni (lep). Bastano? Ne dubitiamo.

La legge quadro è una legge ordinaria. Qualunque legge ordinaria sopravvenuta potrà modificarla o abrogarla. La legge ex articolo 116 Costituzione, approvata a maggioranza assoluta dei componenti sulla base di intesa, è anch’essa una legge ordinaria. Potrebbe bene essere approvata per questa o quella regione con contenuti diversi rispetto alla legge quadro. E quindi ripristinare la inaccettabile diversificazione che la legge quadro vorrebbe impedire. Per contro, una legge quadro sopravvenuta non potrebbe modificare o abrogare la legge approvata sulla base di intesa, che è legge cosiddetta rinforzata, ed offre una resistenza maggiore.

La legge quadro è dunque un segnale politico, più che un vincolo tecnico. Lo stesso può dirsi per i lep, che sono garanzia non per l’eguaglianza, ma contro l’eccesso di diseguaglianza. Tutto dipende da dove si colloca l’asticella, sotto la quale si prescrive l’uniformità, e sopra la quale si consente la diversità. La scelta è rimessa essenzialmente al decisore politico, con una possibile eventuale correzione – difficile da predeterminare – della Corte costituzionale, volta a delimitare la discrezionalità legislativa.

Né legge quadro, né lep pongono per l’unità della Repubblica argini insuperabili. È decisiva piuttosto la lettura che si dà dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione come norma volta a limitate modifiche di adattamento a esigenze locali, e non a uno stravolgimento degli assetti costituzionali.

Come assicurare una distribuzione delle risorse conforme alla Costituzione e alla legge? Sono regionalizzabili la scuola, fondamento dell’identità del paese, o infrastrutture strategiche come autostrade, ferrovie, porti, aeroporti? Possono essere trasferite al demanio regionale? Su questo e altro, più che esercitarsi con norme inutili o di dubbia efficacia, la politica deve dare risposte chiare ed univoche, assumendone la responsabilità.