Arriva in Consiglio dei ministri la richiesta di maggiore autonomia e maggiori risorse avanzata da Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna. Un punto per la Lega, e per Salvini. Si tratta – per quanto sappiamo – di un esame preliminare, cui seguirà solo successivamente l’approvazione di un disegno di legge da presentare alle camere.

È bene così, perché non c’è mai stata una vera discussione sui contenuti della proposta. Che potremmo anzi dire sia stata accuratamente sottratta ai riflettori dell’opinione pubblica. Eppure, si tratta di una riforma che incide nel profondo, probabilmente in meglio per alcuni, ma peggio per altri. Di certo, avrebbe dovuto e potuto coinvolgere tutto il paese, e non solo alcuni diretti interessati.

Una vicenda nata male, e proseguita peggio. Parte con i referendum svolti in Veneto e Lombardia nel 2017. Avevano già provato. In anni lontani la Corte costituzionale (ad esempio con la sentenza 256/1989, 470/1992) aveva affermato che i referendum regionali dovevano evitare di influire sull’ordine costituzionale e politico, e in specie di condizionare scelte discrezionali affidate alla esclusiva competenza di organi centrali dello stato. Esigenza, questa, che possiamo dire non cancellata dalla riforma del Titolo V del 2001. Ma con la sentenza 118/2005 la Corte concede un parziale disco verde al referendum veneto, il cui scopo era evidentemente proprio quello di condizionare le scelte successive di organi costituzionali dello stato. Scopo raggiunto.

Alla fine, potremmo dire, è tutta una volgare questione di soldi. Una «secessione dei ricchi», secondo la formula lanciata da Viesti su Change.org. Lo scopo del Veneto, che Zaia non nasconde, è trattenere una maggior quota dei proventi tributari riferibili al territorio. È – con buona pace del Salvini formato esportazione nel Sud – la ripresa tal quale del vecchio mantra leghista per cui al Nord i soldi del Nord.
Una richiesta che ha sempre posto un solo concretissimo problema: più risorse a uno, meno risorse a un altro. A chi, come e quanto? Supponiamo che sia stata fatta una analisi economica e finanziaria della proposta per il Consiglio dei ministri. Ma non se ne trova traccia. E dunque al governatore Zaia, che insiste sul Corriere della Sera che si proceda subito, si può solo rispondere che nessuna scelta è accettabile prima che siano noti e verificati i costi e i benefici, e soprattutto la loro distribuzione.

Da questo punto di vista va ancora citata la sentenza 118/2005, in cui la Corte definisce costituzionalmente inaccettabili quesiti referendari aventi ad oggetto il trattenimento in regione di almeno l’80% dei tributi riscossi nel territorio regionale. Afferma a tale proposito che tali quesiti incidono «sui legami di solidarietà tra la popolazione regionale e il resto della Repubblica … investono in pieno … alcuni elementi strutturali del sistema nazionale di programmazione finanziaria, indispensabili a garantire la coesione e la solidarietà all’interno della Repubblica, nonché l’unità giuridica ed economica di quest’ultima».

Dalla pronuncia una cosa viene con certezza. Ci sono forme della maggiore autonomia lesive della Costituzione. Tale è trattenere in Veneto l’80% dei proventi tributari come vorrebbe Zaia. Tale è, a nostro avviso, anche attribuire alla regione maggiori risorse non in ragione del costo delle funzioni – storico o standard che si voglia – ma per il più alto livello dei proventi tributari e il cosiddetto residuo fiscale.

In tal modo si sancirebbe che chi ha già di più ha diritto ad avere ancora di più. Che gli altri affoghino pure. Tale è, ancora, regionalizzare integralmente servizi strumentali all’unità del paese, come l’istruzione. Come ho già scritto su queste pagine, contro la legge ex articolo 116 della Costituzione, attuativa della maggiore autonomia, sarebbe preclusa la via referendaria, abrogativa o – secondo la riforma in discussione – propositiva, e rimarrebbe di fatto impraticabile la modifica legislativa. Ma alla Corte costituzionale si potrebbe arrivare.

In questa partita non è possibile che tutti vincano. Se perdesse il Sud, andrebbe ancora bene a Salvini, che manterrebbe la sua forza al Nord, ed anzi potrebbe aumentarla. Ma M5S, che deve al Sud l’ingresso a palazzo Chigi? Pensano forse che non se ne accorgerebbe nessuno? Sarebbero fortunati a evitare i forconi.