La gaffe di Giuseppe Conte è madornale: «Come presidente della Repubblica sono garante della coesione nazionale», ha detto ieri a Potenza. Un lapsus. Una confusione di ruolo ma anche di funzione – la garanzia dell’unità nazionale – che lascia trasparire qualcosa delle tensioni tra ministri e tra i due partiti di governo in vista dell’appuntamento del 15 febbraio. Se non ci sarà un rinvio, quel giorno il Consiglio dei ministri approverà la proposta di accordo con le tre regioni pronte a partire con l’autonomia differenziata, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Non un elenco di materie – sono già note perché scritte nell’articolo 117 della Costituzione – ma una definizione precisa dei confini delle competenze e soprattutto della percentuale di gettito fiscale che le tre regioni potranno trattenere sul territorio. Possibile una scappatoia, già vista: il Consiglio dei ministri potrebbe prendere tempo approvando una prima bozza «salvo intese».

Sono proprio le intese quelle che ancora mancano. Sul fronte della sanità arrivano quotidiani allarmi, ieri una petizione del sindacato medici italiani ha denunciato il rischio di dissoluzione del Servizio sanitario nazionale, così come recentemente evidenziato dalla fondazione Gimbe. La ministra della salute Grillo ha promesso di tutelare i principi di «solidarietà, uguaglianza e universalità». Il ministro Toninelli non vorrebbe vedere scippate allo stato le competenze su porti aeroporti e grandi reti di trasporto, tanto più che ha promesso mari e monti sulla sicurezza delle infrastrutture. L’Emilia Romagna non lo chiede, porti e trasporti sono infatti una delle otto materie (su ventitré) nelle quali la regione amministrata dal centrosinistra ha rinunciato ad avanzare domanda di «ulteriori e particolari forme di autonomia» prevista dall’articolo 116 della Costituzione. La posizione dell’Emilia Romagna è sostenuta non solo dalla maggioranza Pd-Si-Mdp ma anche dall’astensione delle opposizioni M5S e centrodestra. «Non chiediamo un euro in più allo stato, vogliamo gestire qui direttamente le risorse che già ora lo stato spende per le competenze che proponiamo ci vengano trasferite. E non abbiamo mai aperto il capitolo del residuo fiscale», ha detto ieri il presidente della regione, Stefano Bonaccini. A chi lo accusa di reggere il gioco secessionista della Lega, l’esponente del Pd ha risposto di «rivendicare il percorso fatto in comune con Lombardia e Veneto».

Il capitolo del residuo fiscale, cioè l’iniziale richiesta delle regioni di trattenere la differenza tra le imposte riscosse sul territorio e i trasferimenti statali, si è chiuso per tutti perché avrebbe sancito anche formalmente la divisione in due del paese tra ricchi e poveri. La sostanza però non cambia, visto che le tre regioni capofila dell’autonomia differenziata sono anche le uniche (con l’aggiunta del Lazio) che registrano un significativo residuo fiscale. La strada scelta dal governo e dalla ministra leghista per gli affari regionali Stefani è quella – complessa – di attribuire un costo a ognuna delle funzioni trasferite, calcolando tutto, dal personale alle strutture agli approvvigionamenti. In queste ore si sta cercando così di definire la percentuale di raccolta fiscale che per ognuna delle regioni copre la somma di quei servizi, per lasciarla sul territorio in maniera stabile consentendo così alle giunte di programmare la spesa. Con il risultato, però, di cristallizzare le differenze nord sud, visto che nelle regioni più ricche la spesa per i servizi è naturalmente maggiore.

«Alcune delle funzioni sulla quali stiamo trattando vogliamo trasferirle a tutte le regioni», ha detto ieri il sottosegretario grillino agli affari regionali Buffagni. Le regioni del sud però non chiedono più competenze, ma risorse garantite. Il presidente del Veneto Zaia ha invece avvertito che «se l’intesa non ci soddisfa pienamente non firmiamo». La scadenza di venerdì prossimo è indicativa: «Non c’è una tempistica, c’è la politica».