Incendiari al mattino, pompieri alla sera, i legastellati si erano presi ieri un week end di pausa nel gioco a chi fa cadere il governo. Pubblicavano foto al mare, faccine su twitter. Tutto sembrava tranquillo. Ricaricavano le pile in vista di un’altra settimana di agonia. In attesa che Salvini decida cosa farsene di un esecutivo in cui si sente stretto, come i vestiti che indossa, taglia 34%. Nel silenzio, prima della battaglia, all’improvviso è risuonata la voce di Attilio Fontana: «Cialtroni!» ha detto il governatore della Lombardia che non ha digerito lo stralcio della regionalizzazione della scuola dalla secessione dei ricchi che i leghisti chiamano «autonomia differenziata». Ci ha pensato tutto il giorno e poi è sbottato. Di nuovo. Per Fontana è giunto il momento di denunciare agli italiani «i biechi interessi politici» che si nascondono dietro il mancato accoglimento delle richieste del Lombardo-Veneto. «Mi stupiscono i Cinque Stelle – ha detto – e mi stupisce che Conte, che ancora stimo, sia stato coinvolto in questa cialtronata».

NELLA STRATEGIA a due punte adottata dallo squadrone dei governatori, quello veneto Luca Zaia ha mirato al bersaglio grosso. Alle cortesie del collega lombardo Zaia ha aggiunto la chiara volontà di delegittimare il presidente del consiglio di un governo che, in linea teorica, il suo partito dovrebbe ancora sostenere. «Non è il governo che decide il testo» dell’autonomia ha detto. Zaia ha posto un aut aut: «Conte ora ha davanti a sé a due alternative: o ci presenta il testo o getta la spugna, mandando all’aria tutto. Io tifo perché ci sia un testo». Insomma, se Conte non decide sul testo, che testo allora dovrà presentare alle regioni? Lo dovrebbero decidere le forze politiche tra le quali non c’è accordo. La strategia è: fare pressione su Palazzo Chigi e sulla manifesta volontà di Conte di dettare l’agenda. I governatori hanno messo una bomba sotto il tavolo dove domani siederanno il premier e gli emissari legastellati per discutere di soprintendenze e, soprattutto, della ripartizione dei fondi. Fontana ha già anticipato che, se non gli piacerà, lui il testo dell’intesa non lo voterà. Zaia, anche.

CONTE NON HA RISPOSTO, ma dalle consuete fonti ha fatto trapelare la reazione agli attacchi: «Incomprensibili» nei toni e nei contenuti. Palazzo Chigi e i cinque Stelle rivendicano un lavoro di mediazione sull’autonomia realizzato di persona dal premier nelle ultime settimane. E che tutti i ministri, anche quelli leghisti, a partire dalla ministra Stefani per finire a Bussetti, hanno condiviso. Una smentita della narrazione fatta dai governatori leghisti i quali sostengono invece che in quella riunione di venerdì scorso non tutti i presenti erano soddisfatti. In una lettera aperta ai governatori sul Corsera di domenica Conte ha cercato di fare contro-informazione. In un appello ai cittadini del Lombardo-Veneto ha stigmatizzato «dichiarazioni che scadono nell’insulto, tanto più inaccettabili in quanto pronunciate da rappresentanti istituzionali e rivolte a rappresentanti istituzionali». Agli insofferenti governatori ha ribadito che l’autonomia non è una bandiera (elettorale) da sventolare, ma una riforma «che farà bene a voi e all’Italia intera». La difficile arte del mediatore: da un lato, riconosce la necessità della secessione dei ricchi, dall’altro lato suggerisce di affidarsi a lui «per evitare una cattiva riforma sicuramente destinata a cadere sotto la scure della Corte costituzionale, è preferibile realizzare un progetto ben costruito». Spaccare il paese va bene, ma farlo secondo le regole. Altrimenti si rischia la bocciatura. Chiamatela mediazione.

NELLA TENZONE singolare, ma significativa, in cui due governatori si comportano da capi di due staterelli e pongono condizioni al capo di un altro Stato – quello centrale – il conflitto è duplice. L’obiettivo di Fontana e Zaia sono i Cinque Stelle. «Per un pugno di voti – ha detto Fontana – soffocano un volano di crescita come l’autonomia e contrabbandano il tutto come una battaglia Nord contro Sud». In queste gesticolazioni pesa il rospo che i leghisti hanno dovuto ingoiare venerdì scorso quando Conte ha annunciato lo stop sulla scuola che gli avrebbe permesso di dettare i programmi, elaborare i cicli didattici e assumere direttamente i docenti. L’idea che si sia trattata di una «vittoria dei Cinque Stelle», così l’ha definita il sottosegretario all’istruzione Salvatore Giuliano, ha prodotto un cortocircuito nel lombardo-veneto. Fontana si è infatti chiesto dove sarebbe il danno se la Lombardia «decidesse di far seguire gli studenti da professori che durano tutto il ciclo di studi e non come oggi con supplenti e cambi continui. E magari pagarli anche di più visto che il loro stipendio è una vergogna. Si fa un danno al Sud?».

IL DANNO SI CHIAMA gabbie salariali, fine del sistema della contrattazione nazionale, cancellazione dello status giuridico omogeneo dei docenti, frammentazione del reclutamento uniforme, selezione discrezionale del precariato a livello locale. Un altro modo per peggiorare uno dei numerosi problemi strutturali della scuola italiana. È una posizione logica rispetto all’estremismo secessionista leghista. Secondo il principio della secessione dei ricchi le regioni a più alto reddito dovranno trattenere una parte maggiore delle tasse raccolte nel proprio territorio, sottraendola alla fiscalità nazionale. La rottura del principio di solidarietà, in nome del localismo sovranista, permetterà di pagare di più i docenti assunti in Lombardia. Chi resterà bloccato a Sud dovrà accontentarsi di molto meno, anche di nulla, essendo le risorse statali inferiori a quelle che, ipoteticamente, potrebbero essere stanziate nell’Eden lombardo-veneto.

COMPRENDERÀ, Fontana, che i Cinque Stelle siano preoccupati di perdere altri voti al Sud, dove hanno ancora speranza di raccogliere qualche consenso dopo avere perso sei milioni di voti alle Europee. Se ne sono accorti tardi, dopo avere sottoscritto un contratto capestro con la Lega. Ma ora si stanno dando da fare per depotenziare il mostro che hanno creato. In realtà, con poche speranze.

IN QUESTA SCENEGGIATURA di un governo morto che non vuole morire ieri si è fatto sentire anche il governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini, terzo incomodo in una vicenda carica di equivoci e ricca di malintese interpretazioni costituzionali. “Aspettiamo chiarezza da governo – ha scritto su Facebook il governatore di una regione ancora governata dal Pd – L’Emilia Romagna non ha chiesto un euro in più ed è sacrosanto aiutare i territori più svantaggiati. Ma se qui, attraverso una gestione più efficiente delle risorse, riusciamo a risparmiare, allora è giusto che questi soldi siano reinvesti sul nostro territorio e usati per dare migliori servizi ai cittadini dell’Emilia-Romagna, non per altro. Già ora, abbiamo risparmiato 662 milioni di euro in quattro anni grazie alla centrale unica per gli acquisti. Sono soldi risparmiati dalla nostra regione e come spenderli lo decidiamo noi qui, non il governo a Roma”. Argomentazioni ricorrenti nell’armamentario politico-ideologico costruito, sin dagli anni Novanta del XX secolo, dalla Lega Nord. Il localismo sovranista ha fatto strada. Con circospezione. Il Pd emiliano-romagnolo chiede solo 16 competenze contro le 23 del Veneto e le 20 della Lombardia leghiste.

LA RISSA LOMBARDO-VENETA È SOLO L’ANTIPASTO di mercoledì, quando al Senato è prevista la comunicazione di Conte sul «Russiagate» che preoccupa Salvini e le sue truppe. Non è chiaro dove siederà Salvini: se accanto a Conte oppure tra i banchi della Lega. Interverrà dopo il premier, dopo avere controllato, accigliato, cosa dirà sul tema che scotta. Una distanza siderale, plasticamente rappresentata. Nel mezzo resta l’altro vicepremier, Luigi Di Maio. Ieri a Trento, in un’assemblea con gli attivisti M5s, ha detto «Andiamo avanti e non lasciamo che chi ci vuole buttare giù, ci riesca». Più che una certezza, è sembrata un’invocazione. Ai santi della piattaforma Rousseau.