Il ragazzo ha un piede sulla cornice, il corpo inclinato, la testa che sporge oltre il margine. Gli occhi spalancati guardano con paurosa meraviglia un mondo nuovo; le mani afferrano i bordi: è pronto a uscire dal quadro. Ma è solo finzione, la scena è quella di un trompe l’œil del pittore catalano Pere Borrell del Caso: s’intitola Huyendo de la crítica (1874) ed è riprodotto sulla copertina dell’ultimo romanzo di Walter Siti, Exit strategy (Rizzoli, pp. 224, euro 18,00). La scelta del dipinto è quanto mai intonata al contenuto del libro e al suo stesso titolo: il gesto di uscire dalla cornice della finzione artistica è a sua volta una finzione, una pittura d’inganno. Come d’inganno è la scrittura che Siti ha adottato nella maggior parte dei suoi romanzi e racconti. Nel titolo Exit strategy, perciò, la parola ‘strategia’ non è meno importante di ‘uscita’; anzi la formula, già logorata dall’uso nelle cronache politico-militari dei nostri tempi, si ravviva nell’ossimoro: da un lato lo slancio dell’uscita, della fuga; dall’altro la gabbia della strategia, intesa anche come costruzione fittiva. In questo senso, Exit strategy non è solo un titolo a presa rapida; è soprattutto un titolo-matrice, che riproduce il proprio significato di scena in scena, generando il falso disegno di una trama contraddetta dallo straniamento prospettico, dalla mise en abyme che rende quasi indecidibile la sua conclusione.

Scritto in forma di diario, il romanzo inizia nel settembre del 2012, quando il protagonista è sul punto di lasciare Roma (è la prima ‘uscita’ che il libro racconta) per trasferirsi a Milano. Il passaggio da una Roma «trionfante» ed «enfatica» (verrebbe da dire: sorrentiniana nel suo «nascondere le feste dietro i cerotti dei lavori in corso») a una Milano che «non osserva se stessa da fuori» appartiene alla biografia dello scrittore e non sarà estraneo al progetto di un libro che chiude programmaticamente un ciclo. Un flashback riporta indietro il racconto al gennaio del 2011; di lì la narrazione avanza fino all’estate del 2013 (con un Postscriptum che data al mese di dicembre e un Addendum in extremis del «28 gennaio 2014»), intercalando alla storia del protagonista la cronaca delle vicende politiche italiane fino al tramonto berlusconiano e oltre. Tra le uscite più importanti che il libro racconta c’è proprio quella dal ventennio del Cavaliere, in particolare dalla sua ultima grottesca stagione di prodezze erotiche ed espressioni spettacolarizzate del desiderio, esorbitante e falsato come la società mercificata dai consumi di massa che lo alimenta: «“Ha chiesto all’onorevolessa ‘per disfare il bagaglio e sistemarmi la biancheria ci pensi tu?’… ma ti rendi conto? Roba da matti…”; “L’imputata Nicole Minetti dichiara di essersi fermata ad Arcore per molte notti e di aver fatto sesso col Presidente […]in quanto innamorata di lui; ma richiesta di precisare in quale periodo deve collocarsi questo suo amore, risponde di non potersi ricordare con esattezza quando”». L’insaziabile pulsione al consumo – sessuale o meno – che percorre la nostra società trova un correlativo personale nel desiderio di Walter per i corpi dei culturisti. Perciò la caduta dell’Idolo pubblico che meglio ha incarnato quella pulsione implica anche il tentativo dell’io narrato di uscire dalla propria ossessione erotica per convertirsi a un amore normale («Sarà, se ci riesco, la storia di una conversione; o di una riconversione, […]o inversione a U»), a un affetto più domestico e autentico, seppur riluttante, come quello per il giovane Gerardo: «Non ha il corpo giusto, ma giusto per cosa? Per sfuggire alla realtà. Alla realtà non si sfugge.»

L’attitudine del Siti narratore è quella di un moralista (come tutti i migliori scrittori di autofiction, da Carrère a Coetzee): un moralista razionale, a tratti umoristico, preoccupato di capire più che d’indignarsi. Ma il suo moralismo si afferma negandosi, nascondendosi nella fuga prospettica della scrittura d’inganno. Fuga o vertigine che qui ha inizio verso la metà del primo capitolo, quando il narratore avverte che «chi non fosse interessato è pregato di saltare» la digressione metaletteraria: «Questo non sarà un libro ben scritto […]; non sarà nemmeno, come si dice, un’autofiction (non date retta alla dicitura “romanzo” sulla copertina). Sarà un diario banale». Il lettore sta quasi per crederci: l’Addendum tende a trasformare il racconto in un instant book; alcune mistificazioni dei precedenti romanzi vengono confessate; più il narratore allude alle sue opere precedenti (come Resistere non serve a niente, «il romanzo-ordigno» che il protagonista finisce di scrivere mentre scorre il tempo della storia di Exit strategy), più ci fa pensare di aver chiuso i conti con la finzione. Certe persone poi sembra di conoscerle, anzi le conosciamo – con i loro nomi e cognomi di scrittori, critici, editori: Emanuele Trevi, Chiara Gamberale, Antonio Riccardi, Gigi Simonetti. La realtà sembra reale, non un’altra «autobiografia di fatti non accaduti». Se non fosse che, a un certo punto, Walter incontra per caso alla Stazione Termini «un amico eccellente dantista che ha soprannominato “il Cane” diecimila anni fa», ai tempi del primo romanzo, Scuola di nudo (1994). L’amico si chiama ‘Matteo’, ma il nome del referente in carne e ossa cui è ispirato è un altro: un indizio, per chi è in grado di coglierlo, che l’autofiction non è finita. La Nota che segue il Postscriptum e l’Addendum complica ulteriormente la ‘strategia d’uscita’, ribadendo la finzione che il narratore cercava di smentire: «Nonostante la forma diaristica, questo non è un diario: non il mio, almeno. Romanzo in forma di diario, dunque, da intendersi come il “quarto tempo” della mia trilogia autofittiva, o forse meglio come un sequel».

Ce ne sarebbe abbastanza per eccitare i narratologi. Ma Exit strategy non è solo cornice, è anche corpo che si sporge oltre il quadro, sguardo stupefatto di chi osserva un ambiente ancora da scoprire. Nelle sequenze più saggistiche, Siti riesce infatti a conciliare l’intelligenza sociologica con uno sguardo straniante su fatti, figure e fenomeni del presente, facendoli reagire con l’esperienza o la sua reinvenzione (nello stesso capoverso si parla della perdita di carisma del Vaticano e di Montecitorio confrontandola con la perdita di desiderio del protagonista nei confronti dell’escort Marcello). Con Exit strategy, Siti ha certamente raggiunto i limiti e saturato manieristicamente gli spazi che l’autofiction gli ha offerto; ma ha confermato anche come quel genere di narrazione, che al pari di tutte le mode ha imboccato la strada dell’esaurimento e della disaffezione, non sia solo un bel congegno strutturale ma uno strumento di comprensione del presente attraverso lo strappo, il conflitto, l’antidoto all’assuefazione. Il presente, di rimando, autorizza l’autore a raccontarsi perché gli garantisce che la storia che sta scrivendo non è solo sua («Mi chiamo Walter Siti, come tutti», era l’incipit del terzo romanzo Troppi paradisi, 1996) e così facendo lo libera e lo realizza in uno sfondo concreto, riconoscibile, interessante. È per questo forse che in Exit strategy, con una specie di ‘verità’ e di semplicità anche stilistica diversa da quella di altre opere di Siti, la struttura a doppio o triplo fondo non sembra falsificare ma piuttosto autenticare anche il pathos un po’ mélo che colora il rimpianto («quando la famiglia d’origine marcisce, è più forte il dolore di non essere riuscito a costruirne una nuova»), l’amicizia, la «potenziale via d’uscita» di un amore.