Viviamo sempre più in uno stato di rimozione permanente della realtà. Nella sovrapproduzione di oggetti, manufatti e servizi più o meno tecnologici risulta ancora più difficile avere una cognizione di quello che ci succede attorno non mediata, non edulcorata. Non siamo neanche più in grado di sapere cosa vogliamo o comprendere da dove arrivano i nostri desideri. Sempre innamorati dell’ultima innovazione, giriamo a vuoto sull’ultimo carosello di noi stessi.

AUTOPROMOZIONE
Quasi nessuno si chiede da dove vengono e come sono stati prodotti i nostri oggetti di consumo. Le fabbriche sono scomparse da tempo dalle nostre periferie (o così pensiamo, salvo ricordarci che esistono ancora quando avviene qualche incidente sul lavoro). Sono letteralmente in un «altrove» fantasmatico. Parallelamente, ci affidiamo agli algoritmi delle nostre piattaforme preferite perché ci dicano cosa leggere, cosa ascoltare, a chi dare retta, con chi uscire. Non abbiamo neanche più bisogno di riversarci nelle cattedrali della grande distribuzione per consumare, più o meno tutto ci può arrivare direttamente a casa, basta ordinare, basta un’app.

La nostra vita è essenzialmente dedita al consumo: il nostro stesso essere on-line è possibile solo grazie ai costosi device prodotti nel sud-est asiatico (dei cui lavoratori sembra non ci interessi nulla), all’uso di corrente elettrica e alla banda fornita da qualche provider. Quello che produciamo a confronto è davvero poco: qualche condivisione, qualche commento, dati e metadati, certamente, ma che rendiamo possibili principalmente in quanto consumatori di piattaforme.

In questo scenario appare chiaro come la cosiddetta sharing economy non descriva nient’altro se non un ulteriore stile di consumo, incapace di mettere in discussione l’ordine del discorso neoliberista. Dopo decenni di cultura di massa basata sulla pretesa della crescita infinita, i protagonisti della tecnologia commerciale hanno avuto vita facile per allacciare e assuefare la nuova massa di utenti al gioco senza fine della promozione di sé (o self-branding).

IMPRENDITORI GAMIFICATI

Il rimosso di questa situazione è che per partecipare a questo gioco dobbiamo essere tutti consumatori seriali, nel mercato on-line. Solo così possiamo sottoporci volontariamente (ma inconsapevolmente) all’addestramento della logica performativa dell’anarco-capitalismo trionfante. Attraverso la nostra dedizione siamo esposti alle pratiche di gamificazione, attive nei social network e ovunque ci sia interazione. Le modalità premiali e gli schemi tipici dei giochi competitivi, sviluppati nella progettazione e realizzazione di piattaforme digitali, ci portano a pensare e agire in termini di classifica, di punteggio, di misurazione (più contatti, più interazioni, più like!). E così, inseguendo la chimera della meritocrazia, ci trasformiamo in imprenditori di noi stessi.

L’ETICA È UN ESERCIZIO

Come uscirne? Se osserviamo quanto la tecnica sia ormai onnipervasiva e quanto largamente siamo soggiogati da dinamiche di delega a essa, possiamo dire che siamo al sorgere di un regime tecnocratico. Tuttavia l’essenza della tecnica è socio-politica e culturale. Riflettere sulla tecnica vuol dire riflettere su quello che siamo. Se è così allora si apre un ventaglio di possibilità e di azioni. Una di queste è la pedagogia hacker, che consiste nel mutuare dalla figura dell’hacker la sua particolare attitudine: la voglia di scoprire, conoscere e porsi domande sull’ambiente in cui ci si trova. E quando si presenta un problema lavorarci sopra per cercare di risolverlo.

È una possibilità interessante: se il senso comune basato sulla ragione strumentale, lo sfruttamento e il consumo plasmano un individuo che si pensa imprenditore di sé stesso, allora dedicarsi alla formazione di sé attraverso l’esercizio etico vuol dire fare un hacking in senso individuale e collettivo delle norme anarco-capitaliste che ci agiscono, in quanto la cura del sé non è disgiunta dalla cura della comunità.