«Fratelli, figli della stessa madre?», chiede Ifigenia, sacerdotessa in Tauride, a Pilade e Oreste, nella tragedia di Euripide. Quasi negli stessi termini pare aver voluto trattare Vladimir Putin il tema della riunificazione della Crimea, l’antico Chersoneso Taurico, alla Russia, nel suo messaggio all’Assemblea della Federazione, lo scorso 4 dicembre. Putin ha ricordato la cronaca dell’ultimo anno: la decisione del Parlamento della Crimea (78 voti su 81) che la repubblica potesse entrare a far parte della Federazione russa; quindi la dichiarazione di indipendenza dall’Ucraina e, il 16 marzo, il referendum, con il 96,6% dei votanti (3 su 4 del milione e mezzo di aventi diritto) espressisi per la riunificazione.

«Per il nostro paese, per il nostro popolo» ha detto Putin, «quest’avvenimento riveste un carattere speciale. Perché in Crimea vivono le nostre genti e il territorio stesso è importante strategicamente». Perché fu proprio a partire dalla Crimea che «insieme alla vicinanza etnica, la lingua e gli elementi comuni della cultura materiale, i nostri antenati per la prima volta e per sempre presero coscienza di essere un solo popolo. E questo ci dà tutti i fondamenti per dire che, per la Russia, la Crimea, l’antica Korsun, il Chersoneso, Sebastopoli hanno un grande significato sacro e di civiltà. È così che guardiamo a tutto ciò da ora e per sempre». Un «per sempre» ribadito ora dalla maggioranza dei russi.

Anche in un’intervista alla tedesca ARD, Putin aveva accennato alla separazione della Crimea dall’Ucraina. Con quella scelta, aveva sottolineato, gli abitanti avevano realizzato «la cosa più importante e cioè che al momento di decidere dell’autodeterminazione, il popolo che vive in un territorio non deve chiedere il parere delle autorità centrali dello Stato in cui si trova nel dato momento»; aggiungendo: «Nulla di diverso da ciò che è stato fatto in Kosovo». Ma ben altre forze, atlantiche, erano interessate al Kosovo.

In «La società internazionale e il diritto» (Giuffré, 1983) gli autori Giuliano, Scovazzi e Treves scrivono che «la Corte internazionale di giustizia ha definito il “principio di autodeterminazione” quale principio “che risponde alla necessità di rispettare (da parte degli Stati, evidentemente) la volontà liberamente espressa dai popoli”. L’esistenza di tali obblighi tra gli Stati favorisce in fatto l’autodeterminazione e cioè la costituzione di nuovi soggetti».
Quando cioè si arriva a una situazione di fatto, che realizza la volontà di una data popolazione, la comunità internazionale non può che constatare la scelta operata dalle persone che si sono messe sulla strada dell’autonomia o della separazione da una data struttura statale. E Antonio Cassese, nel «Il diritto internazionale nel mondo contemporaneo» (il Mulino) nel 1984 scriveva che «il diritto internazionale è un ordinamento giuridico realista, che tiene conto dei rapporti di potere esistenti e si sforza di tradurli in norme giuridiche. Esso è largamente basato sul principio di effettività, stabilisce cioè che solo quelle pretese e situazioni che sono effettive acquistano rilevanza giuridica». Oggi, a proposito del Donbass, Tamara Guzenkova, dell’Istituto russo di studi strategici, dichiara: «Gli abitanti delle Repubbliche di Donetsk e Lugansk non vogliono più dipendere dal potere ucraino dal quale, negli ultimi tempi, non hanno visto nulla di buono, ma sono pronti a dialogare con esso da pari a pari». Aspirano cioè al riconoscimento di un’autonoma soggettività internazionale, che la comunità mondiale consacra sulla base della loro scelta.

Ciò che Putin ha messo in evidenza – «il popolo che vive in un territorio non deve chiedere il parere delle autorità centrali dello Stato» – ripropone, a distanza di cento e più anni, le famose definizioni di Lenin: «Il diritto delle nazioni all’autodecisione non significa altro che il diritto all’indipendenza in senso politico, alla libera separazione politica dalla nazione dominante». E «Il diritto all’autodeterminazione … significa la soluzione della questione precisamente non da parte del parlamento centrale, bensì da parte del parlamento, della dieta, di un referendum della minoranza che si separa. Quando la Norvegia si separò (nel 1905) dalla Svezia, la cosa fu decisa dalla sola Norvegia».

Putin aveva accennato anche al precedente del Kosovo, la cui indipendenza dalla Serbia fu, dopo la guerra «umanitaria della Nato, prontamente riconosciuta da tutto l’Occidente, che oggi strepita a proposito di Crimea e Donbass. La neo-ministra degli esteri dell’Unione europea – ma siccome non c’è una poltica estera comune si dice Mister Pesc – Federica Mogherini, si è preoccupata di specificare che, da quando ha assunto la carica, non ha mai detto di attendere da Kiev la concessione dell’autonomia alle regioni orientali dell’Ucraina. E in un’intervista all’austriaco Kurier, alla domanda su cosa l’Unione europea si attenda da Kiev, aveva risposto: «Il rispetto per la cultura, la lingua delle persone, lo status autonomo per l’est e riforme istituzionali».
Ancora il capo dei bolscevichi, sempre attento alle situazioni concrete, a proposito della separazione dell’Alsazia dalla Germania e unione alla Francia, scriveva: «L’autodeterminazione presuppone la libertà di separazione dallo Stato oppressore. Del fatto che l’unione a un dato Stato presupponga il suo assenso, in politica «non è uso» parlare. Se si vuole essere un politico marxista, allora parlando dell’Alsazia bisogna attaccare i furfanti del socialismo tedesco, per il fatto che essi non lottano per la libertà di separazione dell’Alsazia e bisogna attaccare i furfanti del socialismo francese per il fatto che essi si rappacificano con la borghesia francese, che desidera l’unione forzata di tutta l’Alsazia; bisogna combattere contro gli uni e gli altri per il fatto che servono l’imperialismo del “proprio” paese e temono la separazione di uno Stato, sia anche piccolo».

Ma è difficile parlare di socialismo a proposito delle contrapposte e molto interessate scelte euroamericane su Kosovo e Crimea.