La Berlinale di quest’anno ha dedicato la sua retrospettiva principale alle registe nella Germania prima divisa e poi unita degli anni tra il 1968 e il 1999 con il titolo Selbstbestimmt. Perspektiven von Filmemacherinnen / Self-determined. Perspectives of women filmmakers, a cura di Rainer Rother, direttore della Deutsche Kinemathek, Karin Herbst-Messlinger e Connie Betz. Il programma ha proposto cinquanta titoli tra lunghi e corti, documentari e film a soggetto di autrici come Margarethe von Trotta, Ulrike Ottinger, Elfi Mikesh, Helke Misselwitz o Helma Sanders-Brahms. Le ragioni di una retrospettiva al femminile sono molteplici e non vanno certo ricercate in una supposta sensibilità tipicamente muliebre o in un’estetica uniforme bensì in ragioni materiali e storiche.

La regista Jeanine Meerapfel, rappresentata nel programma da Malou (1981), proiettato per la prima volta in versione restaurata in quest’occasione, una volta dichiarò: “Io non faccio film femminili, faccio film” e questo è sicuramente vero perché se esiste una “differenza” rispetto alla norma, questa può essere sempre e solo declinata al plurale. Però è anche vero quanto disse Marguerite Duras ovvero che il cinema delle donne è un cinema diverso perché marginale dal punto di vista economico e dunque politico per definizione.

La retrospettiva di quest’anno si colloca in continuità con quella dedicata nel 2016 al nuovo cinema tedesco della fine degli anni Sessanta, un periodo in cui fu chiaro che le donne dietro la macchina da presa non costituivano più un’eccezione e, anche per effetto dei movimenti studenteschi e femministi, si appropriavano sempre più dei mezzi di produzione cinematografica. Ciò avvenne soprattutto quando i formati ridotti permisero di lavorare in modo più leggero e dunque di avvicinarsi maggiormente ai soggetti filmati consentendo di stabilire con questi delle relazioni altrimenti impossibili. Il cinema si rivelò così ancora più capace non solo di documentare e raccontare la vita quotidiana bensì di trasformarsi in strumento di vera e propria partecipazione sociale. Un esempio tra gli altri possibili è il caso di Helga Reidemeister, assistente sociale e cineasta che in Von wegen ‘Shicksal’ (Is this fate?, 1979) cala la sua camera all’interno della famiglia di Irene Rakowitz, madre divorziata di quattro figli di cui per alcuni anni filma la difficile vita quotidiana costellata di dolori e conflitti violentissimi tentando di farsi mediatrice, di usare il cinema come strumento di comunicazione tra i membri del ménage e di presa di coscienza per ciascuno. Il film è interessante anche per il modo in cui mostra la difficoltà di raggiungere gli esiti concreti di un gesto d’intervento sociale che riesce solo a tratti e non in egual misura per tutti i membri della famiglia.

Un caso analogo è quello di Ich denke oft an Hawaii (I often think of Hawaii, 1978) di Elfi Mikesh che segue la monotona quotidianità di un’adolescente berlinese coinvolgendo lei, la madre e il fratello in un carosello di quadri in costume che permettono al sogno e alla fantasia di irrompere nel grigiore di giornate fatte di sveglie all’alba e piatti da lavare. Il lavoro domestico e non delle donne è difatti uno dei temi più rappresentati dalle autrici selezionate, perché fino ad allora trascurato. Per esempio, Helke Misselwitz dedicò Wer fürchtet sich vorm schwarzen Mann (Who’s Afraid of the Bogeyman, 1989) a una delle poche donne proprietarie di un commercio di carbone a Berlino Est, personaggio forte e volitivo che dispone di un manipolo di uomini dal passato per lo più difficile e marginale ai quali lei offre un’occasione d’impiego ribaltando il luogo comune della donna subalterna. Il che avviene anche, in modo più laborioso, nel ritratto che Jutta Brückner ha dedicato alla propria madre in Tue recht und scheue niemand – Das Leben der Gerda Siepenbrink (Do right and fear no one, 1975). La vita della donna tra il 1915 e il 1975 è rappresentata unicamente attraverso immagini fotografiche, tratte in ampia parte dall’archivio di August Sander – che ritrasse minutamente per decenni il popolo tedesco e i suoi costumi – ma anche da autentiche foto famigliari della regista. Gerda fu dapprima figlia per bene di una tipica famiglia borghese immiserita dalla morte del padre, con un fratello tentato dall’arruolamento nelle SA, poi moglie di un impiegato dalle simpatie socialiste ma che non la incoraggiò a rendersi indipendente preferendola casalinga. Solo decidendo di trovare impiego presso una biblioteca pubblica, la donna poté emanciparsi e raggiungere quella capacità di autodeterminazione che, come mostra il titolo della retrospettiva, costituisce sia per le cineaste, sia per le donne da esse raccontate, un’esperienza di imprescindibile valore. Come avviene nel film-intervista di Jean Eustache a sua nonna, riproposto all’ultimo Torino Film Festival, Numéro zéro (1980-2002), anche nel film di Brückner la vita di una donna si fa espressione e testimonianza della storia collettiva di un Paese.

Attraverso queste rappresentazioni, soggetti altrimenti silenziati ed esclusi, accedono alla possibilità di raccontarsi e di valorizzare la propria capacità di organizzazione e azione politica come accade in Fraueninitiative Scharnhorst (Scharnhorst Women’s Initiative, 1978) di Katrin Seybold che segue le riunioni di un collettivo di donne residenti in un sobborgo di Dortmund densamente abitato da madri single. Le donne si rendono conto di subire tutte dai servizi sociali le stesse angherie e si coordinano per denunciare e reagire.

Dalla fine degli anni Ottanta ma soprattutto con la caduta del Muro, la realtà si fa talmente urgente anche sul piano personale da spingere alcune cineaste a intraprendere delle indagini storico-politiche a partire dal proprio vissuto. È quanto fece Sibylle Schönemann in Verriegelte Zeit (Locked up Time, 1990), documentario che a tratti ricorda il cinema di Claude Lanzmann. Nel 1984, la regista e il marito che all’epoca lavoravano presso gli studi della DEFA, avevano fatto domanda per emigrare ad Ovest e per ciò furono arrestati con l’accusa di “interferenza con le attività dello Stato” beneficiando solo dopo un anno di una sorta di “amnistia”. Caduto il Muro, la regista torna a visitare il suo carcere e lì, nella cella che condivisero, con una compagna rievoca le angosce della prigionia. Inoltre, documenti alla mano, si mette sulle tracce di tutti coloro che furono coinvolti nel suo caso: giudici, poliziotti, secondini, informatori della Stasi, il suo capo alla DEFA Hans Dieter Mäde e l’avvocato Wolfgang Vogel, che favorì il suo rilascio e trasferimento ad Ovest. Ciascuno fu a proprio modo un ingranaggio della macchina che le sconvolse la vita ma in pochi sono disposti a un confronto diretto con lei e a riconoscere le proprie responsabilità. Schönemann utilizza gli strumenti espressivi a propria disposizione per ricercare la verità su quanto avvenne e per rielaborare un trauma profondo all’epoca ancora bruciante. La retrospettiva è stata accompagnata dalla pubblicazione del volume Selbstbestimmt. Perspektiven von Filmemacherinnen edito da Bertz + Fischer. Sfortunatamente, però, solo in lingua tedesca.