«Quando dicevamo che l’uguaglianza doveva diventare il tema centrale delle politiche del governo, eravamo guardati come pazzi ed eretici; quando abbiamo parlato contro l’austerità, qualcuno ha chiesto che fossimo espulsi dalla segreteria. Alla fine le idee si sono contaminate e alcune delle nostre sono diventate le politiche del governo Renzi», come quella secondo cui «è partendo dal lavoro e dall’occupazione che si risolverà la questione del risanamento», «tutto il Pd è migliorato», «siamo stati dentro il Pd come ci si deve stare, aprendo discussioni nel merito, giorno per giorno», un rapporto dialettico ma in cui è chiaro a tutti che si sta dentro lo stesso partito altrimenti «il Pd rischierebbe di diventare una puntata del Trono di spade, in cui tutte le famiglie si scannano per il trono e poi, appena uno ci arriva, lo ammazzano».

Fra citazioni dei supereroi della Marvel – «A un grande potere corrisponde una grande responsabilità» – e della tv, Matteo Orfini pronuncia il programma della sinistra renzista, quella che appoggia Renzi ma «con le nostre idee». Rivendica il passaggio cruciale, la svolta renzista, quando Renzi diventa premier grazie soprattutto a loro, che pure fino al giorno prima erano contrari alla coincidenza fra leader e segretario. Oggi fanno autocritica: «Noi dobbiamo ringraziare Enrico Letta perché ha accettato di avere un ruolo in un momento in cui nessuno lo voleva assumere. Ma poi abbiamo ritenuto che il Pd dovesse assumersi questa responsabilità mandando a palazzo Chigi il suo segretario».

Alla fine Orfini lotta anche fisicamente contro la standing ovation, abbassando la testa e cercando di contenere l’entusiasmo dei suoi. Ma l’assemblea nazionale della corrente «Rifare l’Italia», alias «Giovani turchi» non si trattiene. Entusiasmo anche per il ministro della Giustizia, («per noi Andrea Orlando»), in una sala romana affollatissima da un’improvvisa impennata di adesioni. Due dirigenti dell’ex minoranza ai vertici del partito e del governo non è cosa banale. L’appuntamento non assomiglia affatto alla Leopolda, ma ci sono quasi solo giovani.

È il secondo finale della festa di Leftwing, quella della maglietta di Togliatti – che anche qui va a ruba – e che si era ritrovata tra capo e collo, o quasi, l’elezione di Orfini a presidente dell’assemblea del Pd, anzi «presidente del Pd», secondo la definizione impegnativa che ne dà lo stesso Renzi. I giovani turchi sono passati in maggioranza, dopo «lo spartiacque del 25 maggio», spiega Francesco Verducci, rieletto coordinatore. In realtà sono diventati «sinistra renzista» da molto prima. Primi a smarcarsi dalla leadership di Bersani e poi ultimi a rassegnarsi alla leadership di Cuperlo, presente in sala, fanno autocritica: «Abbiamo denunciato il patto di sindacato con cui veniva gestito il Pd, quel mondo non esiste più se non in qualche corridoio segreto del parlamento, non eravamo credibili per parlare di cambiamento», nel senso che non erano credibili quei leader.

Con Renzi, quindi, per un Pd fra «rottura e continuità senza nostalgie («la maglietta di Togliatti è uno scherzo autoironico»), non «partito nel partito» (Orlando) anzi alla ricerca «dell’unità con la maggioranza, non dell’unità delle minoranze», e qui la stoccata è ai riformisti ex bersaniani ancora tormentati dalla scelta se entrare o meno nella segreteria. Segue il programma di 4 incontri di formazione politica perché « la politica è studio e non improvvisazione». E perché, spiega Andrea Cozzolino (uno dei due europarlamentari presenti, l’altro è Roberto Gualtieri) «Abbiamo un leader che può interpretare la vocazione maggioritaria ma non abbiamo né un partito né un programma da 40 per cento». La proposta è quella dell’«alleanza degli innovatori». Spiega Orlando: «Non serve esecrare i ritardi del sindacato ma dialogate con chi vuole cambiarlo. Anche perché senza il sindacato non si cambia l’Italia».