«Sono nata nel 1971, avevo due anni quando c’è stato il golpe militare. Sono cresciuta in quel periodo strano e oscuro che è stata la dittatura cilena, e ho conosciuto il mondo attraverso manifestazioni, elicotteri, funerali e veglie. Faccio parte di una generazione mezzo perduta, che non è stata protagonista di nulla, ma che ha osservato con occhi da adolescente e ha cercato di darsi da fare alla sua giovane età. Credo che in fondo siamo un po’ condannati al ricordo. Forse proprio per questo, senza premeditazione, senza intenzione, come un atto organico, ogni mio libro l’ho scritto pensando ai bambini che siamo stati».
Così la cilena Nona Fernández parla della memoria, nel discorso tenuto alla Feria del Libro di Guadalajara, durante la cerimonia in cui ha ricevuto nel 2017 il premio Sor Juana Inés de la Cruz per il suo sesto romanzo, La dimensione oscura – apparso in Cile nel 2016 e ora pubblicato da Gran Via nella bella traduzione di Carlo Alberto Montalto (pp. 214, euro 16) – nel quale l’autrice conferma una volta di più la sua capacità di reinventare come nessun altro l’ormai codificata narrazione della dittatura, discostandosi da qualsiasi modello ed evitando ogni possibile luogo comune.
Fernández, che è anche attrice teatrale, drammaturga, sceneggiatrice di culebrones (ossia di interminabili telenovelas), in La dimensione oscura costruisce una magnifica narrazione – l’aggettivo non è esagerato – attorno alla figura di Andrés Valenzuela, appartenente alle Forze Aeree cilene, che nel 1984 si presentò nella redazione della rivista Cauce (una tra le rare voci di controinformazione, pubblicata tra il 1983 e il 1989), chiedendo di parlare con la giornalista Mónica González. A lei, incredula e scossa, raccontò la sua carriera di torturatore nel Comando Conjunto, un organismo clandestino che disponeva di basi sparse in tutta Santiago, dove i dirigenti e militanti dei partiti di sinistra venivano torturati e fatti sparire.

OLTRE A QUESTA confessione spontanea, Valenzuela fornì informazioni alla Vicaría de la Solidaridad, creata da quella parte del clero cileno che rifiutava la complice idea di una «chiesa patriottica» e assisteva le vittime della dittatura. E fu proprio grazie alla Vicaría che il «traditore» riuscì a sfuggire ai suoi ex compagni e fuggire in Francia, dove vive tutt’ora. Nona Fernández, che aveva allora tredici anni, vide il volto baffuto del giovane Valenzuela sulla copertina di Cauce, accompagnato dalla scritta Yo torturé e a quell’immagine ripensò per anni, fino a trasformarla nel punto focale di un testo indefinibile, che oscilla tra romanzo, cronaca, documento, autobiografia, e si serve di una prima persona resa diversa dai numerosi salti temporali: Nona ragazzina, Nona donna e madre, Nona che pensa di scrivere il libro, e che lo scrive in una prosa limpida e, nonostante tutto, a tratti ironica e perfino affettuosa, piena di immagini difficili da dimenticare.

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Lettere mai spedite all’ormai anziano fuggiasco, sul cui percorso di uomo qualunque e mostro pentito l’autrice non smette mai di interrogarsi, si mescolano a brandelli della propria vita quotidiana, a ricordi d’infanzia, a domande senza risposta, a brani in versi liberi, a racconti asciutti e precisi sulle vittime e le loro famiglie, sulle esecuzioni, sui corpi esposti e offesi.
È in questo modo che Fernández varca la frontiera tra i generi, li ibrida, ne sovverte i canoni, crea una struttura «mista» scandita dal mantra ricorrente di una frase («Famigliari di detenuti scomparsi /accendono candele davanti alla Cattedrale»), monta e riorganizza materiali eterogenei con il supporto costante dell’immaginazione, che, innestandosi sulla realtà, ne produce di nuovi, infiltrati da innumerevoli riferimenti alla cultura pop anni ’80, quella globale in cui Fernández è cresciuta.

IL TITOLO ORIGINALE del romanzo, per esempio, è La dimensión desconocida, quello con cui fu trasmessa in Cile la serie americana The Twilight Zone (nota da noi come «Ai confini della realtà»), le cui microstorie aiutano a illustrare gli orrori della repressione, mentre si affacciano la colonna sonora di Ghostbusters, canzoni, videogiochi, gli Avengers o certi orrendi quiz televisivi, gli stessi che i bambini guardavano in tutto il mondo, facendo merenda davanti alla tv, ma che a Santiago erano accompagnati dal coprifuoco e dagli elicotteri in volo sul quartiere.
Quando un’ampia ricerca d’archivio o le testimonianze glielo consentono, Fernández afferma: «lo so»; ripete: «immagino» quando i vuoti della realtà chiedono di essere riempiti per poter pronunciare di nuovo nomi cancellati, raccontare clandestinità spaventose come quelle del quindicenne Mario, o seguire i passi di Valenzuela che in «Area fantasmi», la terza delle quattro parti in cui è diviso il romanzo, si confronta con gli spettri dickensiani di altri Natali (anche Mapocho, il primo romanzo di Fernández pubblicato da Gran Via nel 2017, è del resto una storia gotica articolata intorno alla dittatura).
Ma anche l’ultima parte, «Area di evasione», ospita un fantasma tenace: Estrella, compagna di scuola di Fernández e figlia del colonnello Guillermo González, oggi all’ergastolo e tra i principali responsabili del «caso degollados», il sequestro di tre intellettuali comunisti che il 30 marzo 1985 furono ritrovati sgozzati.

GIÀ PERSONAGGIO di Space invaders (pubblicato in Italia da Edicola Ediciones), Estrella appare in una cronaca inserita nell’antologia collettiva Volver a los 17, e infine in questo romanzo, che ripercorre i misteri degli anni di scuola e il suo tragico destino (fu uccisa negli anni ’90 dall’ex marito, un tenente dell’esercito).
Anche lei è una vittima, anche il suo corpo torna attraverso la scrittura – questa scrittura -, insieme a quelli dei sequestrati, dei torturati che Fernández vuole riscattare dalla marginalità e collegare al presente, come nell’episodio in cui, all’inaugurazione del Museo della Memoria, la madre di un ragazzo assassinato dalla dittatura e quella di un attivista mapuche ucciso dalla polizia «democratica» denunciano insieme il prolungarsi degli abusi di allora in quelli di oggi.

ESTRELLA E I SUOI COETANEI sono parte della generazione che ha convissuto con il silenzio degli adulti, messi a tacere dalla paura, dall’opportunismo o dalla complicità, ma anche dal desiderio di proteggere i propri figli. Figure chiave dell’opera di Fernández, i bambini e gli adolescenti di allora si collocano al centro della scena e a loro l’autrice propone nuove chiavi di interpretazione per rimettere in movimento il racconto della dittatura, ormai istituzionalizzato e quindi irrilevante: come nella canzone di Billy Joel che la narratrice continua a canticchiare, anche se non sono stati loro ad aver acceso il fuoco, è a loro che tocca spegnerlo.
La dimensione oscura si rivela dunque un romanzo generazionale, fatto di continue contaminazioni, filtrato attraverso un’autobiografia individuale eppure condivisa, un’autobiografia di tutti. Ma l’autrice vede ben più lontano della categoria degli hijos, dei figli, alla quale appartiene: quello che le interessa è una «staffetta della memoria», un’eredità da lasciare ad altri figli, una nuova generazione, perché trovino un loro modo di accostarsi al passato («che non esiste», dice Fernández , «ma è solo un’inquietante dimensione del presente») e riconoscerlo nel futuro.