Tra le tante maschere che indossiamo nel teatro della vita quotidiana, il genere è una di quelle che ancora si fatica a riconoscere come tale e che anzi, con una pletora di ingiunzioni, ci viene appiccicata all’epidermide fin dalla nascita in modo da illuderci che non esista. Che il genere sia una maschera, un processo performativo, è un’idea che si sviluppa compiutamente con il pensiero decostruzionista ma che affonda le radici in tutta la riflessione che dalla fine dell’Ottocento in poi indaga sull’impossibilità per il soggetto di ridursi a una sola verità.

Dalla letteratura alla psicoanalisi, da Dostoevskij a Lacan passando per Oscar Wilde, Nietzsche e Pirandello, la maschera e tutte le varianti del doppio, il sosia, lo specchio, il dipinto, sono il veicolo di un’indagine sulla complessità della coscienza.

Nel 1929, la psicoanalista Joan Riviere firma un saggio dal titolo originale Womanliness as a masquerade (tradotto La femminilità come travestimento), che sarà poi molto dibattuto in psicoanalisi e negli studi di genere, in cui analizza la storia di un’intellettuale, presumibilmente l’autrice stessa, che dopo ogni intervento pubblico reagiva all’ansia profonda che le suscitava la sua capacità di misurarsi ad armi pari con i colleghi uomini, ricercando da loro sia rassicurazioni sulla qualità del suo lavoro sia avances sessuali. Indossando una maschera di vanità femminile ed eterosessuale estranea alle sue abilità e competenze, la donna allontanava da sé il timore delle ritorsioni che inconsciamente credeva di poter subire da parte degli uomini, ovvero di suo padre, per il fatto di essersi messa in competizione con loro e, quindi, di minacciarli di castrazione. La femminilità come rito apotropaico, dunque, come sacrificio sull’altare del dominio maschile e del pensiero straight.

Da allora, l’idea che la femminilità e la maschilità abbiano bisogno di essere messe in scena, performate, per esistere in quanto assetti solidi e autonomi è stata ripresa e raffinata da numerose voci. Tra le più note c’è quella di Judith Butler che in Gender trouble, proprio commentando il testo di Riviere, si chiede: ma che cosa viene mascherato dalla mascherata? Molta dell’opera di Butler è, in fin dei conti, una risposta a questa domanda e un tentativo di dimostrare quanto sia integrato il rapporto tra corpi e prassi, natura e cultura, e quanto le norme binarie siano violente e menzognere rispetto al nostro essere, fondamentalmente polimorfo e transeunte: «quella che consideriamo una caratteristica ‘interiore’ è ciò che in realtà anticipiamo e produciamo attraverso determinati atti del corpo, al limite, un effetto allucinatorio di gesti naturalizzati».

Negli stessi anni in cui Riviere scriveva il suo saggio, l’artista e scrittrice surrealista Claude Cahun, alias Lucy Renée Mathilde Schwob, dava alle stampe la sua non-autobiografia Aveux non avenus, testo paradossale sin dal titolo, traducibile come «confessioni non rese». In quelle pagine di parole e immagini, brani di diario e boutades, ricordi e sogni, questa straordinaria artista poliedrica che con la scrittura, il teatro e la fotografia ha trasformato il genere e il proprio corpo in materiale plasmabile, fa spesso ricorso ai motivi della maschera e dello specchio.

Un collage la raffigura come un collo su cui si erge una corolla di autoritratti che si svelano e occultano a vicenda coprendo di volta in volta gli occhi o la bocca. Una stringa di testo corre tutto intorno all’immagine dichiarando: «Sotto questa maschera un’altra maschera. Non finirò mai di sollevare tutti questi volti». La maschera è certamente per Cahun il simbolo di un’incessante ricerca di verità da parte di un soggetto fondamentalmente straniero a se stesso ma c’è dell’altro. In lei, che nell’arte e nella vita lanciava lo sguardo oltre ogni illusione, la maschera è spesso la soglia oltre la quale si spalancano le profondità del vuoto. È lo strumento per esaltare il mistero, per tenere acceso un desiderio destinato rimanere inappagato. In tal senso dunque, la maschera è, ieri come oggi, nell’arte e nella vita, anche un rivelatore di esistenza e il viatico di un’incessante attività creativa che si sviluppa nella dialettica tra vincolo e libertà.