«Non mi era mai piaciuta l’alcantara, ma in quel momento l’avevo toccata con la certezza che fosse perfetta in rapporto a ciò che stavo vivendo, un tipo di tessuto non tessuto, un prodotto industriale simile a un tessuto ma le cui fibre si dispongono secondo uno sviluppo casuale, senza l’ordine tipico di un vero tessuto, la trama e l’ordito». Qualcosa di simile al camoscio, ma senza il «peso dell’esistenza», della carne scuoiata. In Ipotesi di una sconfitta (Einaudi, pp. 392, euro 19,50) di Giorgio Falco, il soggetto di questa sconfitta vive in un mondo di alcantara, come noi tutti: ed è insieme inglobato e irretito da questa finta materialità, ma anche critico verso di essa. Ipotesi è un romanzo autobiografico, che tematizza uno scacco: non strettamente individuale, e nemmeno in senso proprio generazionale: semmai storico.

Storia politica dell’Italia recente
È un romanzo sul lavoro – passa in rassegna le esperienze lavorative di un protagonista-narratore che ha il nome e il cognome dell’autore – ma è prima di tutto un romanzo politico sulla storia d’Italia negli ultimi decenni, anche se per documenta indiretti. Così testimonia la stessa copertina, dove campeggia un fotoritratto di Falco da giovane, appena sfiorato da scampoli di luce: è insomma l’autore-narratore che diventa un documento – talvolta un simulacro (gfalco), che cerca di cogliere nella sua vita gli aspetti più impersonali e insieme più rappresantativi di un clima epocale («Mi sentivo convalescente, ma non ero deluso dal lavoro. Soffrivo, dall’età di diciassette anni, di una nevrosi politica ed economica, più che individuale»).

Non monumento (male ha fatto chi ha parlato di epica), nemmeno propriamente sintomo da interpretare (la diagnosi è bene e spesso esplicitata), ma appunto documento da leggere come rappresentazione tendente all’oggettività di una sorta di estetica anestetizzata del quotidiano. La storia c’è, le classi dominanti continuano a farla: il lavoratore salariato può conformarsi alla visione e al linguaggio dell’ideologia dominante, anche quando venga espulso o annaspi nello sterminato esercito di riserva della forza-lavoro. Se cerca di resistere, finirà rifugiato in uno sgabuzzino come il declassato zzgf1 e per uscirne se la dovrà vedere con la ben oliata macchina paranoica del potere.

Se poi ne viene scacciato come artista, non potrà certo opporre all’indifferenza del capitale e delle merci la sua aureola caduta nel fango, ma semmai rispondere – benjaminianamente – con la politicizzazione dell’arte. Tuttavia, anche se pienamente assunta, questa politicità non potrà non essere messa alla frusta da un negativo adorniano – che pure è presente nella sconfitta, nell’eterno ritorno dell’identico, nella resa finale a una scrittura per qualche verso come tentativo (o tentazione) di allineamento biologico alla natura.
Se il finale converge verso questa (dis)soluzione, una forte tensione dialettica è riscontrabile nel primo, bellissimo capitolo del libro, sulla vita e morte del padre. A leggerlo come un episodio di elaborazione del lutto, non si sbaglierebbe in pieno: ma si finirebbe per eliderne o smorzarne il carattere documentale. Il padre è soprattutto un uomo del suo tempo.

Per quanto non manchino armoniche affettive (ma tendenzialmente prive di analisi psicologiche), la storia dell’uomo venuto dal Sud per lavorare nell’Atm negli anni alle soglie del boom economico – e poi quella della sua dolorosa uscita dal lavoro, decadenza, malattia, morte è soprattutto rappresentazione e addio a un’epoca. E, nel rituale del figlio – segnato da una dissoluzione e da una discronia condizionati dalla visuale (Google Street View) –, ormai nemmeno più congedo da un uomo e da una storia: «Sullo schermo era una giornata di ottobre, cupa, il cielo grigio, asettico, senza suoni, la scomparsa di una controparte reale rendeva le immagini lugubri, e più che l’omaggio preventivo a un uomo – l’ottobre di mio padre –, più che il funerale di un’epoca passata, era solo il funerale del presente».

All’imperfetto indicativo
Questo funerale è celebrato lungo tutto il romanzo da un imperfetto indicativo insolitamente usato come tempo narrativo, che porta con radicalità lo sfondo in primo piano. Per di più, il futuro viene normalmente e coerentemente alluso – come una sorta di irrevocabile condanna – solo attraverso il condizionale passato (il cosiddetto futuro nel passato). Niente elegia, quindi, e nemmeno protensione verso l’utopia: un passato senza eventi topici, un futuro senza eventi sperabili.

Non resta che l’accettazione della immaterialità del denaro come equivalente astratto del valore (che sostituisce l’illusione del ciclo lavoro-denaro-merce) attraverso l’assunzione delle scommesse (su eventi televisivi, digitali, fantasmatici) come fonte di sostentamento, e la scommessa radicale e perentoria della scrittura: se come mero antidoto a una individuale disforia, esercizio antropologicamente rilevante di «funerale del presente», o anche residuo spazio di una qualche forma di utopia concreta, è questione che sembra rimanere fuori dallo spazio esplicito del libro – per quanto ne motivi con ogni evidenza ogni singola pagina.