La California ha decretato la fine dei motori a scoppio entro il 2035. La scorsa settimana Biden ha esteso a tutto il paese l’obiettivo di 50% di veicoli elettrici entro il 2030. L’Unione europea sta valutando una legge simile che fra 14 anni vieterebbe la commercializzazione di vetture a propulsione tradizionale. I maggiori costruttori, dalla GM, alla Volkswagen alla Nissan, con qualche variazione, si stanno più o meno attrezzando per rispettare l’ambiziosa tabella di marcia per l’elettrificazione del parco auto mondiale. La mastodontica conversione energetica dei trasporti si prospetta come uno sforzo tecnologico epocale per fare fronte alla crisi climatica, che al contempo promette di ridisegnare equilibri economici e commerciali su scala mondiale – a partire dalle catene di fornitura necessarie a far fronte ad un fabbisogno di batterie al litio destinato a crescere esponenzialmente.

MOLTI COSTRUTTORI SI SONO GIA’ precipitati a predisporre l’infrastruttura necessaria. Nel 2016 la Tesla aveva inaugurato la propria Gigafactory, una gigantesca fabbrica di accumulatori a ioni di litio su 111 km2 in Nevada che impiega 7.000 operai per fornire batterie alle auto elettriche di lusso che costruisce in California. La Volkswagen ha recentemente annunciato la prossima costruzione di sei impianti simili in Europa, in grado di fornire batterie per un valore energetico complessivo si 150000 gigajoule, cinque ne annuncia Stellantis (Fiat/Chrysler/PSA). La General Motors sta costruendo un secondo mega impianto in Tennessee che, specifica, avrà produzione doppia di quello della Tesla. Nell’ultima decade la produzione di batterie super efficienti che alimentano le auto ad emissioni zero è decuplicata ma l’agenzia internazionale per l’energia (IEA) stima che dovrà aumentare ancora del 800% nei prossimi dieci anni. I gruppi industriali leader nella manifattura di batterie sono la coreana LG, la cinese CATL e la giapponese Panasonic, ognuna con circa un quarto dello share di mercato.

A MONTE, PER FORNIRE LITIO, RAME, cobalto, nickel e altri metalli necessari alla fabbricazione delle batterie in quantità dieci volte superiori a quelle attualmente disponibili, sta esplodendo anche la domanda per le materie prime. Tutti i costruttori si stanno affrettando a stringere accordi con fornitori di litio (come quello appena concluso dalla Renault con la Vulcan per 17.000 tonnellate annue). E come accaduto per le precedenti rivoluzioni industriali, il «boom» minerario destinato a sostenere l’energia «pulita», potrebbe aver effetti potenzialmente catastrofici sull’ambiente. Attorno alla «febbre del litio» girano infatti gli interessi del grande capitale, che fiuta favolosi guadagni, e quelli di governi che si stanno attrezzando per vincere il predominio sulle riserve di un materiale strategico.

ATTUALMENTE IL MAGGIOR PRODUTTORE di litio è l’Australia, seguita da Cile, Cina e Argentina. La produzione mondiale si attesta sulle 270.000 tonnellate complessive mentre ne occorrerebbero già molte di più. La Cina – al momento anche il maggior raffinatore e produttore di batterie – da sola prevede di necessitare di 800.000 tonnellate annue entro il 2025. La sola Gigafactory Tesla potrebbe assorbire in un anno 80.000 tonnellate di litio – pari all’intera produzione australiana.

COSI’ FRA LE POTENZE INDUSTRIALI si sta sviluppando una gara per assicurarsi le riserve e mettere le mani sull’elemento più leggero della tavola periodica, destinato ad assumere un peso determinante nella filiera industriale. «Si tratta di una gara per il futuro», ha dichiarato di recente Jennifer Granholm, ministra Usa per l’energia. «Ed è una gara che gli Stati uniti intendono vincere». Dietro agli interessi nazionali vi sono quelli dei grandi conglomerati transnazionali di un settore noto per i pessimi trascorsi ambientali ed umanitari, e per cui il litio è l’ultima frontiera del profitto. Multinazionali come la Rio Tinto che sta per aprire una grande miniera in Serbia, nei pressi di Loznica, malgrado l’opposizione di ambientalisti ed agricoltori locali preoccupati per l’impronta inquinante di un operazione del genere in una zona agricola.

EMBLEMATICO E’ IL CASO BOLIVIANO. I maggiori giacimenti mondiali di litio si trovano nel paese andino, sotto i salares de Uyuni, negli altipaini salati di Potosì, Coipasa y Pastos Grandes. La regione nota come Cerro Rico ha per secoli fornito stagno, argento e rame a potenze coloniali e multinazionali che, assieme ai metalli, hanno esportato la ricchezza di un popolo impoverito. Ora, sotto al lago salato, a 4.000 metri di altezza, il litio rappresenta un nuovo tesoro e i minatori sono intenzionati a non farselo nuovamente rubare. I giacimenti erano stati nazionalizzati da Evo Morales, ma gli appalti inizialmente concessi ad aziende tedesche per l’estrazione erano stati oggetto di violente contestazioni di minatori. Ora il governo socialista di Luis Arce ha indetto nuove gare di appalto che dovrebbero garantire condizioni migliori per le comunità locali, mobilitatesi per assicurarsi che attorno alla nascitura industria non si ripetano le dinamiche di sfruttamento dei minatori indigeni.

INTANTO IN USA BIDEN, IL PRESIDENTE che sulla green conversion scommette gran parte del proprio programma, dichiara di voler fare degli Stati uniti una «superpotenza dell’energia alternativa» inquadrando la corsa tecnologica in termini di concorrenza col rivale cinese. A giugno il Congresso ha approvato un pacchetto di $250 miliardi per incentivare la ricerca tecnologica, motivato specificamente dalla concorrenza con Pechino su componenti strategici come semiconduttori e batterie. Per rimediare in fretta al ritardo accumulato, già alla fine dell’amministrazione Trump erano state approvati in via preliminare progetti di miniere in 6 stati americani, successivamente promosse anche da Biden che dovrà finalizzare le licenze.

E ANCHE QUI IL BOOM PROMETTE di impattare comunità native. La prima delle miniere autorizzate per «direttissima» potrebbe essere infatti quella della canadese Lithium Americas, proposta per la zona di Thacker Pass, su terre ancestrali Paiute e Shoshone fra Nevada e Oregon. Le miniere dell’Ovest americano sono spesso state ubicate su terre indiane (quelle di uranio e carbone sulla riserva Navajo per esempio), dove è stato più facile eludere le normative ambientali. La cava a cielo aperto di Thacker Pass – che produrrebbe litio per un milione di batterie all’anno – promette di avere l’effetto devastante sul territorio caratteristico di questo tipo di operazioni: una voragine profonda 100 metri, milioni di tonnellate di materiali da riporto, utilizzo ogni giorno di milioni di ettolitri di acqua mista a sostanze come l’acido solforico che potrebbe contaminare le falde acquifere per 300 anni.

UNO SCENARIO CONTRO CUI SI SONO mobilitate tribù, allevatori e ambientalisti. Considerato l’aumento repentino del numero di miniere che si prospetta in giro per il mondo, l’effetto cumulativo su ambiente e comunità locali potrebbe essere devastante. La corsa all’«oro bianco» potrebbe peggiorare ancora l’inquinamento, il razzismo e lo sfruttamento che sono già il rimosso della nostra era tecnologica (si vedano le condizioni disumane in cui in Congo viene estratto il cobalto, elemento necessario alle batterie dei cellulari).

LE CAVE A CIELO APERTO NON SONO l’unica tecnica per l’estrazione del litio – solo la più dannosa. L’estrazione può avvenire mediante evaporazione, come sugli altipiani delle Ande, un sistema che comporta comunque un forte dispendio di acqua in regioni spesso aride. Un’altra proposta prevede il dragaggio dei fondali marittimi (di cui ha scritto su queste pagine la scorsa settimana Michela Mazzali) – un’idea che, avvertono i biologi marini, potrebbe risultare devastante per l’equilibrio di delicati ecosistemi di cui ancora capiamo poco. «La nuova domanda per energia pulita, potrebbe finire per determinare maggiori danni ambientali malgrado le migliori intenzioni», ha dichiarato al Los Angeles Times Aime Boulanger, direttrice della Initiative for Responsible Mining Assurance, che certifica operazioni a basso impatto ambientale ed è consulente di costruttori come Ford e BMW, desiderosi di evitare danni alla propria immagine.

DALLA CALIFORNIA INTANTO EMERGE una possibile terza via: l’estrazione geotermica. Diverse aziende stanno ultimando il finanziamento di operazioni nei pressi del Salton Sea, il grande lago «morto» nella Imperial Valley a ridosso del confine messicano, in una delle province più povere dello stato. La strategia utilizza la pressione naturale di acque geotermiche per portare in superficie il litio che viene poi raffinato senza bisogno di attendere l’evaporazione e con una nuova tecnica che evita l’uso di acidi. In questo senso stanno sperimentando una mezza dozzina di startup e grandi gruppi, fra cui l’australiana Controlled Thermal Rcesouces, la Lilac Solutions di Bill Gates, la Terra Lithium, partecipata della Occidental Petroleum e la Energy Source finanziata dalla Berkshire Hathaway.

SE QUESTO PROCESSO DOVESSE RISULTARE efficace ed economico potrebbe indicare la strada per un energia più pulita – anche nella filiera di produzione. Se sarà anche etica dipenderà da come i conglomerati sapranno distribuire anche fra i braccianti che qui lavorano nei campi, un po’ della grande ricchezza che estrarranno dalla terra.