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Auto ecologiche e crescita, una coppia in crisi

Auto ecologiche e crescita, una coppia in crisiGiacomo Balla "Automobile in corsa", 1913

Transizione ecologica Secondo l’economista D.Harvey, l’economia raddoppia ogni 25 anni: nel 1950 era di 4 mila mld di dollari, nel 2000 di 40 mila mld, fino agli 80 mila mld nel 2019

Pubblicato più di un anno faEdizione del 30 marzo 2023

La vicenda dell’auto è emblematica delle resistenze di una parte del mondo imprenditoriale e politico ad una effettiva transizione ecologica. Il passaggio dal motore termico all’elettrico resta confinato in una visione meramente produttivistica, in cui prevale il calcolo di mercato e l’aumento del parco macchine circolante. Come se non fosse la quantità di veicoli sulle strade, qualunque sia l’alimentazione del motore, ad amplificare le criticità della mobilità urbana ed extraurbana.

Il salto tecnologico non si traduce, insomma, in nuove modalità di trasporto delle persone e delle merci, né in una vera riconversione industriale. Risorse imponenti vengono riversate su strade, autostrade, viadotti, ponti, spiazzando gli investimenti per il trasporto pubblico locale e per migliorare l’efficienza della rete ferroviaria e del trasporto via mare. Anche la decisione governativa di costruire il ponte sullo Stretto, come ha scritto Federico M. Butera su questo giornale, costituisce una palese violazione del Green Deal europeo e non tiene conto dell’impatto ambientale.

Tra politica ecologista e crescita economica esiste dunque una relazione irrisolta e ambigua. Alla retorica sulla “rivoluzione verde” corrisponde la sostanziale continuità dell’attuale modello di produzione e di consumo. Pensiamo all’espansione edilizia e del settore immobiliare, alla sconsiderata cementificazione del suolo, all’inquinamento legato all’agricoltura e agli allevamenti intensivi. Il nodo da sciogliere è dunque il rapporto tra transizione ecologica e crescita economica.

David Harvey, economista marxista, con i suoi studi sulla «crescita composta», ci aiuta a capire la curva ascendente dell’economia globale. Il movimento del capitale, sostiene Harvey, cerca continuamente nuove occasioni di investimento e di profitto e crea una spirale economica espansiva praticamente infinita. In base ai suoi calcoli, dal secondo dopoguerra ad oggi, il valore dell’economia raddoppia mediamente ogni 25 anni: nel 1950 era di 4 mila miliardi di dollari, nel 2000 è diventato di 40 mila miliardi, per arrivare agli 80 mila miliardi del 2019. Questa accelerazione senza precedenti del ritmo di sviluppo è la causa prima della crisi climatica, della crisi sociale e degli intollerabili squilibri nella distribuzione della ricchezza. (D. Harvey, Cronache anticapitaliste, Feltrinelli, 2021).

Nonostante numerosi studi confermino la fondatezza della tesi di Harvey, la maggioranza degli economisti e dei leader politici continua a indicare il tasso di crescita come metro di misura della buona salute dell’economia, ignorando consapevolmente l’altro aspetto della crescita ossia il capitale già accumulato. Continua a fare affidamento sulle virtù salvifiche del mercato e sottovaluta i rischi derivanti dalle consistenti emissioni di gas serra che, conseguentemente alla maggiore crescita, si vanno ad aggiungere alla massa di carbonio e metano già presente nell’atmosfera.

Nella sua capacità di innovare e trasformarsi, il capitalismo non ha trovato ancora la “formula magica” che consenta di salvare il pianeta dal riscaldamento globale e mantenere, al contempo, gli attuali livelli di crescita. Con tutto il rispetto per tanti illustri professori di economia, la pretesa di tenere insieme crescita del Pil e contrasto del cambiamento climatico è come volere “la botte piena e la moglie ubriaca”.

“Rallentare” diventa l’unica opzione per scongiurare il punto di non ritorno. Per la sinistra ecologista e socialista si pone il problema di correggere una traiettoria di crescita che accentua le diseguaglianze e mette in discussione la sopravvivenza del pianeta. Si tratta di combattere con fermezza tanto il feticismo del “tasso di crescita” quanto quello della “decrescita felice”.

La dimensione attuale dell’economia consente infatti, con un tasso di crescita minore, la produzione di gran parte dei beni e dei servizi di cui la società ha bisogno. Mettere il pedale sul freno significa affidare all’economia obiettivi concreti e realistici di transizione ecologica e di giustizia sociale.

Il ruolo della sinistra, a questo punto, è più che mai decisivo nel dar vita ad un movimento largo e unitario che distingua bene ciò che è “valore” per il capitalismo (la ricchezza privata), e ciò che è “valore” per la maggioranza dei cittadini (i beni collettivi: l’ambiente, i diritti, la salute, l’istruzione, l’abitare). Giustizia ambientale e giustizia sociale vanno insieme.

Il sentiero da percorrere è stretto e impervio, ma non ce ne sono altri. La rivoluzione è un processo lungo e graduale, non una palingenesi e, tanto meno, un piagnisteo. Tocca alla sinistra provare, nel frattempo, a salvare magari il capitalismo dalla sua naturale propensione alla crisi e alla distruzione ambientale.

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