Tony De Blois, cieco fin dai primissimi giorni di vita: a due anni inizia a improvvisare sul pianoforte e a tre sa già suonare alcune decine di canzoni. A quindici si diploma al Berkeley College of Music di Boston e si avvicina prima al jazz e poi alla musica classica. Oggi ha quarantotto anni e sa suonare ventitré strumenti diversi, canta in nove lingue, conosce a memoria ottomila canzoni ed è in grado riprodurre un brano musicale, anche di estrema complessità, dopo averlo ascoltato una sola volta. Martin A., nordamericano di New York, non legge la musica, ma – come racconta Oliver Sacks – sa a memoria duemila opere teatrali, impara una Cantata di Bach dopo averla ascoltato una sola volta, canta regolarmente in un coro professionale e sa ripetere tutte le voci dei nove volumi del Grove’s Dictionary of Music and Musician’s. Harriet G., figlia di un insegante di canto, a sette mesi ripete perfettamente la melodia di «Caro nome», l’aria di Gilda dal Rigoletto di Verdi, a quattro anni sa suonare il violino, il pianoforte e il flauto e fin da adolescente, pur non sapendo leggere la musica, è in grado di improvvisare agevolmente nello stile di Bach, di Chopin, di Schumann e di Liszt.

E infine Stephen Wiltshire, londinese di origini indiane: a tre anni non parla, ma è in grado di riprodurre con esattezza un edificio, un paesaggio, un’automobile americana e un autobus di Londra dopo aver visto un disegno o una foto solo una volta per pochi secondi; da adolescente scopre la musica, impara a suonare da solo, senza alcun insegante, la chitarra e il pianoforte e oggi, a quarantasei anni, è in grado di suonare e cantare qualsiasi canzone ascoltata una sola volta. Tony, Martin, Harriet e Stephen non sono, musicisti. Non, quanto meno, nel senso che attribuiamo abitualmente a questo termine. In comune non hanno la professione dell’interprete o del compositore, bensì un tratto identitario ben più forte, definito e doloroso: rientrano tutti e quattro cioè nel vastissimo universo clinico del cosiddetto Dsa, il Disturbo dello Spettro Autistico. A diversi livelli di gravità, ovviamente, dalla Sindrome di Asperger fino a forme di autismo profondo, ma a tutti loro la malattia è stata diagnosticata in modo inequivocabile fini dai primissimi anni di vita.

A differenza della maggior parte dei soggetti autistici, però Tony, Martin, Harriet e Stephen hanno sviluppato, in epoche diverse della loro esistenza, un talento, una abilità, una «specializzazione» che li hanno portati irresistibilmente verso il mondo dei suoni, verso quella che noi definiamo genericamente «musica». Sono insomma portatori di quella sindrome secondaria dell’autismo – presente, statisticamente, in un caso su dieci – che gli studiosi e i medici definiscono «sindrome di savant». Le attitudini musicali dei soggetti autistici possiedono però due caratteri forti e apparentemente antitetici: per un verso il loro talento è la conseguenza di una ipertrofia mnemonica molto accentuata, del tutto simile alla ipertrofia eidetica mostrata, ad esempio, da Stephen Wiltshire: la musica che eseguono e compongono è dunque in un certo senso meccanica, ripetitiva, del tutto priva di contenuto emozionale.

Ma al tempo stesso l’attività di scrivere, improvvisare, suonare, cantare è – come nel caso del «melomane enciclopedico» di Sacks – una assoluta, imprescindibile necessità. Una terapia contro il disagio di stare al mondo. «Ho bisogno di cantare» dice Martin A. quando, sprofondato in una profondissima crisi di disperazione, cerca di trovare una via d’uscita. E il ritorno al canto si rivela per lui un farmaco «miracoloso». Che non lo aiuta a regredire dallo status autistico, una condizione di per sé irreversibile, ma gli consente di ridurre lo iato doloroso che lo separa dal mondo. Questo intarsio tra memoria e necessità, tra esercizio e urgenza del fare musica ha forse qualche cosa da insegnare anche a chi ha avuto la fortuna di non essere caduto nel lago scuro del Disturbo dello Spettro Autistico.