Posti esauriti, siamo pieni, tutto completo. A Vienna è questo il cartello che il neo premier socialdemocratico Christian Kern (nella foto) vorrebbe tanto poter esibire in vista delle tanto temute nuove elezioni del prossimo 2 ottobre. I segnali che vengono dalla vicina Germania non promettono niente di buono e in Austria si torna alle urne dopo che la Corte costituzionale ha annullato per irregolarità il responso uscito dalle urne lo scorso 22 maggio, allora – a sorpresa e per un pugno di schede – il candidato rampante della destra xenofoba Norbert Hofer era stato sorpassato non già dai socialdemocratici, risultati terzi, ma da un anziano professore ambientalista, Alexander Van der Bellen. E ora il partito Fpoe di Hofer si frega le mani in vista della vittoria che non è ancora riuscito ad assaporare.

Nel frattempo il premier «pro tempore» non ha di meglio da fare che attuare una versione forse solo un tantino più moderata della politica che Hofer propone. E ieri ha approvato a tamburo battente un decreto «d’urgenza» per bloccare i migranti alle frontiere. Anzi, per rispedirli indietro, verso «paesi confinanti ritenuti sicuri»: leggi l’Italia, al di là del Brennero, visto che l’Ungheria ha già minacciato ricorso davanti alla Corte di Giustizia europea per bocca del ministro dell’Interno Wolfgang Sobotka che ha parlato alla radio austriaca Orf.

Il piano di Vienna, secondo i dettagli illustrati dal sito Der Standard.at, prevederebbe dal primo gennaio 2017 il respingimento dei migranti una volta raggiunto il tetto fissato (arbitrariamente) a 37.500 «asylanten», cioè richiedenti asilo. La chiusura delle frontiere, eccetto che per casi particolari di persone a rischio torture o con parenti in Austria, durerebbe sei mesi ma prorogabili tre volte.

La proposta – che sarebbe il risultato di una lunga trattativa tra socialdemocratici del Spo e popolari del FPÖ – ha già allarmato al massimo l’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu. Christopher Pinter, a capo dell’ufficio di Vienna dell’Unhcr ha fatto presente che una misura simile a un numero chiuso decretata autonomamente da un governo dell’Unione «romperebbe un tabù in Europa e significherebbe una rinuncia al diritto d’asilo in Austria», con il rischio che «altri Paesi europei seguano l’esempio».

«È un precedente molto grave – conferma al telefono Christopher Hein, direttore del Consiglio italiano rifugiati – che si può ripercuotere sull’Italia, paese che insieme alla Grecia dovrebbe essere beneficiario del piano europeo dei ricollocamenti e invece si troverebbe a dover accoglierli anche dagli altri paesi a nord delle Alpi». Hein fa presente che questo paradossale respingimento già avviene in parte utilizzando il regolamento di Dublino. «Così l’Austria va persino oltre perché non parla di quote numeriche, il criterio è solo il primo paese d’arrivo e di presentazione della domanda d’asilo».

È però applicando Dublino che la Germania ha finora rispedito in Italia 521 rifugiati nei primi sei mesi del 2016. Ed è proprio in virtù del fatto che in Grecia dal 2011 non è stato più applicato Dublino che il governo di Atene ha potuto affrontare l’emergenza profughi dopo il blocco della rotta balcanica.

Mentre Angela Merkel continua a lodare il «modello dell’accordo Ue-Turchia», qualche giorno fa il suo ministro dell’Interno Thomas de Maizère ha però dichiarato che, «essendo migliorate le condizioni in Grecia», Berlino si riserva l’anno prossimo di rispedire in Grecia «in base ai principi di Dublino» i richiedenti asilo che da là provengono. Una prospettiva giudicata «inaccettabile» dal ministro greco per le Migrazioni Ioannis Moulazas.

La proposta di riforma di Dublino della Commissione europea, che prevede ricollocamenti obbligatori con sanzioni per gli arrivi eccedenti il 150 per cento delle quote – «una riforma peggiorativa» per Hein – non è ancora passata dall’Europarlamento né dal Consiglio. «L’assurdo è che il numero degli arrivi quest’anno è diminuito ovunque eccetto che in Italia e (123 mila via mare, erano 121.734 nel 2015: dati Viminale di ieri), questi allarmi sono solo propaganda politica», conclude Hein.