Nell’ecatombe di animali e piante vittime degli incendi in Australia (insieme alle 26 persone morte: l’ultima ieri, un vigile del fuoco), l’abbattimento di 5.000 – 10.000 cammelli e dromedari selvatici annunciato dopo molte esitazioni dalle autorità nelle Apy Lands (Anangu Pitjantjatjara Yankunytjatjara) suona come un ulteriore incubo. La competizione per la più preziosa delle risorse quando è scarsa – l’acqua – sta contrapponendo una comunità umana in genere discriminata, gli aborigeni australiani, a una «comunità animale» devastata dalla sete tanto da spostarsi in mandrie disperate verso le zone abitate nello spasmodico tentativo di abbeverarsi.

LE APY LANDS SI TROVANO in una zona remota dell’Australia meridionale. Sono una Local Government Area (Lga) amministrata dagli aborigeni in virtù di una legge del 1981. La popolazione conta circa 2.300 persone, appartenenti alle tribù Pitjantjatjara, Yankunytjatjara e Ngaanyatjarra. Il governo dell’Apy ha dato l’assenso all’abbattimento spiegando che «con le attuali condizioni di siccità, gruppi estremamente numerosi di animali minacciano le comunità e le infrastrutture della zona; è necessario imporre un controllo».

Abbattono le recinzioni ed entrano nelle case, cercando l’acqua anche nei condizionatori d’aria. Inoltre, ha dichiarato un portavoce del Dipartimento per l’ambiente e l’acqua (Dew) dell’Australia meridionale, «i cadaveri in putrefazione degli animali che muoiono di sete, fame o malattie hanno contaminato importanti fonti d’acqua». Quasi a mettere le mani avanti, il direttore delle Apy Lands, Richard King, ha dichiarato che con l’«ultima spiaggia» – il piano di abbattimento mediante cecchini da elicotteri – si ucciderà un numero di animali «pari solo all’1% di ciò che attualmente sta distruggendo le fragili fauna e flora australiane»; questa prima settimana di mattanza è «l’avvio di un tentativo di controllare la popolazione di cammelli e dromedari», ha concluso.

I CAMMELLI SONO considerati sacri da alcune comunità aborigene, per ironia della sorte. Non sono specie autoctona come tante altre vittime selvatiche del fuoco, che si cerca di salvare. Furono introdotti dai colonizzatori inglesi nel diciannovesimo secolo. La loro popolazione è cresciuta molto fino a superare probabilmente il milione di esemplari e – si afferma – potrebbe raddoppiare in pochi anni. Secondo il Dew, «è diventato impossibile gestire un tale numero in condizioni aride».

Addirittura rischierebbero di consumare tutte le riserve idriche dell’Australia meridionale. Piuttosto della dolorosissima morte per sete, oltretutto con i rischi per gli umani, l’abbattimento potrebbe sembrare quasi un’operazione di eutanasia, tanto più che il Dew si è premurato di spiegare che «gli animali saranno distrutti (sic) con i più alti standard del benessere animale». Insomma i cecchini professionisti mireranno bene. Ma ci si può chiedere perché non si sia cercato in passato di prevenire la proliferazione di questi alloctoni senza dover arrivare a misure drastiche. Il controllo demografico delle specie selvatiche è un problema non nuovo e non solo dell’Australia, il cui piano di contenimento basato sugli abbattimenti data diversi anni ma non pare riuscito.

«NON UCCIDETELI, mandateceli qui»: arriva dal Somaliland l’appello l’appello di Mustafe Cali Deeq, presidente della locale Associazione degli allevatori di cammelli (domestici però). «Sono preziosi» ha aggiunto. Una soluzione purtroppo non praticabile. Che non si presta nemmeno alla sterilizzazione (praticabile invece con successo su altre specie e in altri contesti), come conferma Massimo Vitturi della Lav: «Il vaccino al momento esiste solo nella formulazione iniettabile – quindi bisognerebbe catturare ogni singolo animale; poi i tempi per la diminuzione della numerosità della popolazione sono troppo lunghi rispetto alla questione considerata come un’emergenza dalle autorità. Occorrono soluzioni più incruente ed efficaci, per esempio bacini di abbeveraggio lontani dai centri abitati».

E SECONDO LE AUTORITÀ ci vorranno mesi per superare il disastro. Per l’Australia il 2019 è stato uno degli anni più caldi mai registrati. Un triste primato condiviso da Europa orientale e meridionale e dall’Africa meridionale, per non dire dell’Alaska e di varie parti dell’Artico, secondo il Copernicus Climate Change Service. Mentre i livelli di concentrazione globali di CO2 in atmosfera non fanno che crescere.