Sono recentemente usciti gli ultimi dati della disoccupazione. Secondo l’Istat il tasso consiste nel 13% (3,3 milioni) e del 42,3% (678mila) nella fascia giovanile . Più globalmente l’ultimo rapporto Ilo 2013 calcola che dal 2007 si siano aggiunti ben 28 milioni di persone senza lavoro; i paesi avanzati sono l’epicentro. Si tratta di un dramma sociale impressionante, come ammettono praticamente tutti i commentatori. Che ne riconducono abitualmente le cause alla crisi stessa.

Non altrettanto diffusa è la correlazione di tale trend (aumento costante da metà anni Settanta) con le dinamiche più generali del processo economico, in particolare con la finanziarizzazione che trasforma il quadro totalmente. Si tratta del processo derivante da una crisi di accumulazione: gli investimenti non garantivano più un forte ritorno di guadagni. La soluzione è stata fare a meno del processo di produzione stesso, marginalizzandolo a favore di prodotti finanziari e vari tipi di speculazione. Le radici del fenomeno fanno capolino, sorprendentemente, nello stesso Marx secondo cui «Il processo di produzione appare soltanto come termine medio inevitabile, come male necessario per far denaro. Tutte le nazioni a produzione capitalistica vengono colte perciò periodicamente da una vertigine, nella quale vogliono fare denaro senza la mediazione del processo di produzione». Tale dinamica, allagandosi tutti i settori dell’economia, ha contribuito ad una disoccupazione di massa strutturale: prendendo possesso della maggior parte delle aziende quotate in borsa, gli azionisti finanziari hanno l’interesse a aumentarne il valore a breve termine con manovre spericolate o licenziamenti di massa.

Se dunque tali caratteri paiono connaturati all’asseto neoliberista della società, le conseguenze sulle persone appaiono pienamente congruenti. Lo stesso Marx evocava, com’è noto, la massa dei disoccupati come «l’esercito industriale di riserva» al servizio della classe padronale. La ricerca psicologica studia le conseguenze psichiche della disoccupazione dagli anni Trenta; sulla base di un’enorme serie di dati empirici ha rilevato come essa sia strettamente associata, se non causa diretta, di disfunzioni mentali quali ansia, depressione, insoddisfazione generale, apatia, disfunzioni nei rapporti sociali, morbosità. Secondo alcuni autori (D. Fryer) una visione di contesto indica nel processo di riassetto dell’identità di non-occupato, spinto ad auto-dinamizzarsi per rientrare nel mercato, l’interiorizzazione del comportamento funzionale al mantenimento dell’assetto neoliberale stesso. In Grecia, com’è noto, la crisi e l’austerità conseguente hanno portato un’ondata di problemi sanitari anche psicologici (si vedano le spaventose ricerche di The Lancet) proprio mentre la Troika imponeva di tagliare la spesa sociale, in specie la sanità.

Il rischio che si chiuda un cerchio è alto: la finanziarizzazione crea i presupposti generali di una bassa occupazione, che con la crisi e l’austerità diventa estremamente brutale – aggravata e non sanata dai supposti rimedi mainstream – diffondendo apatia e presumibilmente la disponibilità ad estremismo reazionario. Il sintomo rafforza la sua patologia, anzi ne inibisce la soluzione. Se alle origini il neoliberismo ha usato soprattutto torture e repressione, terrorizzando per imporsi come in Cile, adesso diffonde più apatia e rassegnazione. Il tempo corre via, e parte dell’elettorato greco già è andato verso neonazisti e rassegnazione. Ma Syriza è in buona posizione per vincere le europee, segno che al fondo la Grecia non è del tutto a terra. La Grecia si batterà.