Desiderantur, o più estesamente aliquot lineae desiderantur era una formulare glossa filologica, oggi evocativa e plurisensa – ricomposizione, processo di individuazione… – nell’uso fattone da Sanguineti sulla soglia di Laborintus. Mancano alcune righe di testo, c’è una lacuna nella compagine del tessuto, fra le parole, nel corpo del testo. E se ne sente la mancanza, l’assenza immedicabile, tanto da istillarne nostalgia, desiderio. La perdita da cui muove La notte ha la mia voce (Einaudi «Stile Libero Big», pp. 176, € 16,50), il terzo, generoso romanzo di Alessandra Sarchi, è quella dell’interezza del corpo, o meglio della sua integrità percettiva. Alla protagonista, che del romanzo è voce narrante, manca la terra sotto i piedi, quella conosciuta nell’infanzia, la terra da calcare che dà sicurezza e flessione di passo: una lesione le ha tolto autonomia dalla cintola in giù. È corpo dimidiato che non può scollarsi la metà che non sente né recuperarla. Rimane per sempre pungente la «brama del fango, della polvere, della terra che ti fodera fino ai malleoli». È nella coscienza della perdita che nasce il sentimento di «paura e nostalgia di me stessa» dichiarato dall’io. Mancanza e desiderio.
Il romanzo registra una cesura, un’opposizione tra il sole di Taormina che illuminava la protagonista mentre saliva le gradinate del teatro, e il buio dell’incidente subìto anni più tardi. Ed è quella cesura a innescare, con tutta la lentezza e l’elaborazione dovute, il processo d’individuazione – anche in termini junghiani, con acquisizione dell’ombra – cui la protagonista va incontro dopo il trauma.
Più che la «guerra quotidiana» in cui far nascere nuove abitudini, capacità di trovare punti di equilibrio, forza nelle braccia che compensi e sappia spostare le gambe, nel libro di Alessandra Sarchi conta la straordinaria tessitura di letteratura e vigile auscultazione fisiologica – «è in un corpo e non altrove che noi conosciamo la vita». La ricchezza scaturisce dall’intreccio tra l’esperienza personale – ove si coglie un empito rinascimentale, il convincimento leonardesco che nulla si possa apprendere senza i cinque sensi, senza l’esperienza madre di certezza – e il patrimonio culturale declinato in letteratura e del pari in arte e filosofia. Ovvero nell’estetica, perché in tutto il romanzo la voce dell’io – e in diverso modo anche quella dell’amica Giovanna, l’esibizionista Donnagatto –, cerca visceralmente l’esercizio del giudizio estetico e il suo godimento, desidera la bellezza, la ricomposizione in unità di ordine e armonia. Un desiderio già «messo al riparo», negli splendidi racconti d’esordio, Segni sottili e clandestini (2008), «come un’icona antica».
Qui, ora, siamo di fronte a una lotta personale, a un limpido affondo nella coscienza, e a una lotta tra elementi primigeni, al passaggio pur doloroso e tormentato dal chaos al kosmos. Poiché l’opera è matura e decantata, si tratta di un passaggio niente affatto univoco ma vibrante, invece, di memorie ancestrali e spinte metamorfiche, di trasmutazioni di forme e sostanze, di creature acquatiche che divengono lentissimamente terrestri, come il Tiktaalik, e di movimenti regressivi dal fascino tremendo: il ritorno dei bipedi agli antenati pesci e anfibi. Si avverte, sotterraneo, l’Ovidio delle Metamorfosi, della natura e della cosmogonia iniziale, quando terra, aria e acqua si dividono, come diviso è il romanzo in tre parti intitolate ai tre elementi. La riflessione, dall’epigrafe di Kosinsky, si apre sulla libertà della sopravvivenza, per toccare poi dolore carnale e dio flagellatore segnalati dal Giobbe della seconda epigrafe, e sfociare infine nella vastità marina, quella, anche, della Tempesta shakespeariana che trasforma le ossa in «coralli», sommersa eco di un desiderio pronunciato nella prima parte: che l’acqua «unguento» di una doccia possa fare le vene «splendenti e intrecciate come coralli marini».
La notte ha la mia voce è un romanzo denso di questioni, in cui la più abissale, nell’orizzonte leopardiano di un «inviluppo organico che manda domande inutili all’universo», è la tensione tra organico e inorganico, il nodo indagato dal lucidissimo Freud di Al di là del principio di piacere. Nel romanzo, però, il nodo investe relazioni esterno-interno, identità-alterità, confini tra corpi, alienazione, e vacilla sul limitare della parola generando sgomento: «le gambe, i piedi, l’anca e il bacino fino alla cintola sfuggivano alla presa delle mie parole, come se fossero stati riassorbiti dalla natura, da quello stato primordiale in cui tutto assomiglia a tutto. Affacciarmi su quella neutralità indistinta mi riempiva di panico. Le mie gambe erano, ma non diversamente dal muro, dal sasso».
La sostanza di questa scrittura è ampiamente riflessiva, esistenziale, la sua caratura elegante, la sua precisione acuminata. Sa essere in equilibrio perfetto tra prossimità e distanza perché ricorre a entrambe, dialetticamente. La tessitura è salda, mossa da anticipazioni e affioramenti memoriali, le connessioni efficaci, soprattutto negli urti tra la bella voce dell’amica che di notte lavora per un telefono erotico e i più aspri ricordi della medicalizzazione. Anche le ellissi, in quest’architettura, funzionano da collante. E così le screziature, l’ossessiva vitalità delle pagine dedicate alle gambe, alla danza e alla potenza dell’immaginazione; così l’espressionismo bamboleggiante, infantile e atroce, degli acquerelli di Carol Rama affioranti nei sogni, con i loro appassionati antibodies, con lingue e sessi esposti, e moltiplicate ruote, reti di protesi, e sottili capelli fioriti, scarpe rosse e corpi tronchi.
Ormai lontano il terapeutico «velluto» della morfina, la scrittura di Alessandra Sarchi non conosce anestesia: si fonde col corpo e lo segue, teso e in abbandono, corallo e alga, mentre cerca origine e dissolvimento.