C’è oggi un problema di ricorsi alla memoria collettiva (del pari alle memorie individuali) che si pone, come nel già dibattuto «uso pubblico della storia», per i suoi effetti culturali di lungo periodo. Si tratta di un elemento da fare oggetto di molte riflessioni, per evitare di perdersi nel labirinto delle facile retoriche e delle banalizzazioni inopportune, che svuotano altrimenti da dentro il significato di certe ricorrenze.

Ci troviamo dinanzi al quattordicesimo Giorno della memoria, istituito con la legge 211 nel 2000. Il transito di questi anni è stato peraltro denso e pieno di incognite. Siamo entrati a pieno titolo nell’età che ci separa definitivamente dai testimoni diretti delle più grandi tragedie del Novecento, a partire dallo sterminio delle comunità ebraiche per mano nazista e fascista.

Un valido repertorio di riflessioni, al riguardo, è quello offerto dal volume collettaneo, a cura di Marta Baiardi e Alberto Cavaglion, Dopo i testimoni. Memorie, storiografie e narrazioni della deportazione razziale (Viella, pp. 390, euro 28). Non a caso Marianne Hirsch, docente di letteratura comparata alla Columbia University, ha usato l’espressione «postmemoria», indicando con essa l’insieme dei fattori, perlopiù di ordine estetico, visivo e percettivo che permettono, a chi non ha vissuto un trauma, di identificarsi in esso pur in assenza dei protagonisti. La questione, va da sé, non è puramente accademica, richiamando semmai la natura del rapporto diretto che intratteniamo con il nostro passato, i mezzi e i codici che utilizziamo per darci una ragione di esso e, in prospettiva, la capacità di renderlo strumento utile per la costruzione di un comune futuro. Si tratta quindi della questione della definizione di una scala valoriale e di giudizio, sulla quale misurare non solo la valutazione riguardo a ciò che è stato ma, soprattutto, l’identificazione delle priorità per il tempo a venire.

Ipertrofia del ricordo

Un primo punto da cui partire, per dipanare la matassa, è che oggi si dà una retorica della memoria, ovvero una sorta di ipertrofia del ricordo. In più di una circostanza esso si fa infatti imperativo civile inderogabile al quale, però, corrisponde frequentemente non una presa di coscienza storica, e quindi una sua ricaduta civile diffusa, bensì un difetto della medesima. Un’eterogenesi dei fini, in sé paradossale, che deriva dal combinato disposto tra la dimensione astratta e, nel medesimo tempo, prescrittiva della memoria, quanto meno per come è intesa da molti, insieme al rischio di una sua vuota ridondanza emotiva. A ciò spesso si è accompagnato il bisogno di esercitare un veloce e indolore risarcimento nei confronti delle vittime, inteso come attribuzione di un loro statuto pubblico basato sul «se ne parla», raggiunto il quale la riparazione dei torti può dirsi soddisfatta.

La storia, tuttavia, non è propriamente questo. La storia è spesso inquietante e sgradevole perché a fronte del riconoscimento dell’offesa subita da certuni coglie anche e soprattutto la trama e l’ordito della sopraffazione. Ne indaga la natura, ne racconta l’intelaiatura, soprattutto fa appello alle compromissioni e alle corresponsabilità in un’ottica di lungo respiro. Non è un tribunale ma si esercita senz’altro sui nessi che intercorrono tra modernità e barbarie. Non è quindi mai storia di «altri», trattandosi spesso del racconto di un noi collettivo, dove i molti coni d’ombra si accompagnano alle rare isole di luce.

Elena Loewenthal, scrittrice e traduttrice, ha allora ragione a dire, nel suo agile e denso volumetto intitolato Contro il giorno della memoria (Add editore, pp. 93, euro 10), che gli interlocutori delle riflessioni legate al 27 gennaio non sono gli ebrei ma i non ebrei. A questi ultimi parla, infatti, all’interno di un discorso che deve continuare a rilevare e denunciare i rapporti tra il progetto nazista, nonché fascista, di una Europa razziale, da cui si dipanò l’assassinio in massa degli ebrei, e una guerra non solo di conquista bensì di sterminio, soprattutto contro le popolazioni slave. Altrimenti il rischio è di ricadere su di sé, come un palloncino che, prima o poi, si sgonfierà impietosamente. Non di meno, se altrimenti inteso, può alimentare l’idea di un eccezionalismo delle vittime, di una condizione irriducibile alla normalità, che è peraltro il presupposto stesso del pensare razzistico e dell’agire criminale.

Poiché nel prisma delle persecuzioni ebraiche leggiamo oggi, in controluce, non le specificità dell’ebraismo medesimo ma semmai moventi ideologici e i dispositivi assassini che traducono l’alterità in alterazione, la differenza in elemento di diffidenza, la varietà in minaccia al bisogno di uniformazione, quest’ultimo la vera silloge dal fascismo ma anche dei diffusi razzismi. Un calco negativo, che rimanda non tanto alla singolarità di uno sterminio bensì alla sua riproducibilità tecnica. Se tutto questo non è recepito, quel che resta del discorso della memoria può rischiare di trasformarsi in sterile esercizio di vittimismo («valgo nella misura in cui necessito di un qualche risarcimento e non in quanto soggetto di cittadinanza») o, ancor peggio, di vittimofilia, attivando quel micidiale congegno a tempo che rende desiderabile l’idea di una persona, così come l’immagine di una collettività, non per quello che sono concretamente bensì per quello che si vorrebbe che fossero. Salvo poi derogare dalla compiacenza precedentemente prestata quando, alla prova dei fatti, l’altrui condotta non risponde alle proprie aspettative.

Tra tragedia e banalizzazione

Il falso nesso istituito tra Shoah e Stato d’Israele, laddove la prima sarebbe il fondamento morale e storico del secondo, funziona in questi termini. Da qualunque punto di vista la si intenda osservare, a meno che non si sia accecati da furore ideologico. Non solo perché è un falso storico, trattandosi il sionismo di ben altra storia da quella dello sterminio, ma anche per gli usi e, soprattutto gli abusi, che se ne vanno facendo nel discorso pubblico. Così come la concorrenza tra le vittime, messa già efficacemente in rilievo da un autore immeritatamente non tradotto in Italia, Jean-Michel Chaumont, rischia di innescare una rincorsa a spirale, una dialettica lacerante, e non meno falsa, tra una visione ottusamente particolaristica delle tragedie storiche e, sull’altro versante, la banalizzazione della sofferenza, alla ricerca di un suo primato da autoattribuirsi.

Il richiamo al rapporto con il passato come vincolo e imperativo non libera quindi energie. Semmai rischia di comprimere forze e risorse. Benché da molti possa essere inteso, o per meglio dire frainteso, come necessario obbligo etico. Non di meno, il rinvio alla memoria come ad un agente attivo della conoscenza, dalla quale deriverebbe una consapevolezza che si tradurrebbe in anticorpo democratico, sembra offrire assai poco di duraturo. Poiché se la conoscenza del passato è imprescindibile, essa è sì condizione necessaria ma non certo sufficiente per mettere in circuito le risposte alle derive, ovunque esse si manifestino.

Piuttosto il punto critico è la sua trasmissione (modi, circostanze, soggetti, codici e saperi), in una società dove invece evento e spettacolarizzazione, ricerca dell’iperbole e sensazionalismo, sono i veri luoghi del comune sentire. All’interno di essi, tutto si trattiene ma anche molto si vanifica, traducendosi nell’orrido anestetizzato, una sorta di postumo effetto splatter, dove la complessità di quel passato e del nostro presente si pialla, sostituita da una specie di intercambiabilità amorale degli orrori. Se Auschwitz è ovunque, non è neanche in nessun luogo, essendo sempre e comunque ripetuto e, quindi, annullato nella sua coazione ossessiva.

Sul «Giorno della memoria» dobbiamo allora confrontarci con diversi piani di lettura critica. Il primo di essi rinvia ad una dimensione strettamente istituzionale. In sé ha costituito, in non pochi casi, una conquista ed una opportunità. Ha aperto alcune significative finestre su un passato che non può, né deve, facilmente passare. Sulle infinite peripezie, sui molteplici transiti, sulla preistoria del ricordo si sofferma il bel libro di Costantino Di Sante, Auschwitz prima di Auschwitz (Ombre Corte, pp. 189, euro 18), rinviando ad un’epoca, quella dell’immediato dopoguerra, quando di quegli eventi si sapeva quasi nulla e si voleva conoscere ancora di meno. Massimo Adolfo Vitale fu tra i primi, in quegli anni, a cercare di capire e documentare i possibili confini di una tragedia scontornata, dissonante, afasica. Dopo di che lo scenario dell’oggi è completamente diverso, rischiando semmai la saturazione da inflazione.

Il campo delle istituzioni pubbliche è quello che maggiormente si presta al rischio di una sorta di musealizzazione di quel passato, una lettura imbalsamata, che non scorre, trasformandosi, passo dopo passo, in un’immagine sacralizzata che, come può essere oggetto di forme di venerazione, alimenta anche un crescente desiderio iconoclastico. Il secondo fronte di lettura rimanda ai processi educativi e all’istituzione scolastica, deputata per eccellenza ad essi.

Le ansie del presente

La narrazione storica, al di là delle stesse incongruenze dei programmi ministeriali, ha subito le ripetute torsioni alle quali la scuola, in questi ultimi vent’anni, è stata sottoposta, sia come circuito educativo che come sistema culturale. Riflette al suo interno le contraddizioni di una società che non solo ha faticato a fare i conti con il proprio passato ma che ha ancora maggiori difficoltà a raccordarsi ad un presente che vive come fonte di ansia e interpreta come incomprensibile e inesplicabile. La memoria, qui, rischia più che mai di diventare un succedaneo della storia come narrazione comune, traducendosi in facile identificazione emotiva. Come tale, tanto intensa nel momento della sua condivisione quanto revocabile nel momento in cui l’empatia può essere spesa per un altro oggetto di interesse.

La delicatezza di questo passaggio non può sfuggire, ancor più se si conviene con Loewenthal che Auschwitz «non disegna l’identità ebraica» ma, nel suo essere storia di vuoti, di assenze, dice che cosa l’Europa avrebbe potuto essere e, in parte, cosa è stata capace di divenire consapevolmente, sotto la guida di leadership modernizzanti e, nel medesimo tempo, criminali.

Il problema si ripropone, ed è il terzo elemento, dal momento che avremo sempre più spesso a che fare con cittadinanze multiculturali, basate su società poco inclusive e sul ritorno dei comunitarismi. La molteplicità delle identità e dei linguaggi rappresenta già da adesso una sfida, che non può essere affrontata con il ricorso ai moniti. Poiché il vero nocciolo non è solo come si racconta la Storia ma come si fanno coesistere insieme molte storie. Che non sono meno vere per il fatto di essere plurali, prodotto di identità eterogenee e di traiettorie esistenziali imprevedibili.