Passata la tregua estiva è ripartito il bla,bla,bla del talk politico. Solite facce, soliti argomenti, nessuna novità. E soliti ascolti, inchiodati tra il 3 e il 4%, o poco più. Sono anni che nel settore non si registra più l’evento, l’impennata, la serata clou, quella che all’indomani finisce sulla prima pagina dei giornali. A mostrare impietosamente il declino di un genere, un dì glorioso, che nemmeno la campagna elettorale imminente appare in grado di invertire.

E’ ricomparso Renzi; e con lui i Salvini, i Di Maio, i Bersani, perfino la Meloni; è ricomparso il curiale Vespa; si è rivisto l’ex santoriano Formigli; sono tornate le ‘piazze’ taroccate di Del Debbio. Insomma nella tv della chiacchiera politica nessuno ha lasciato, anzi qualcuno, come Annunziata (l’unica, per inciso, con Gruber, a salvarsi nel naufragio), ha addirittura raddoppiato. Il modello è sempre quello: la solita compagnia di giro politico-giornalistica, le solite maschere, con qualche isolata new entry; e poi alzare il tiro ogni due minuti, «altrimenti l’audience decresce» (Formigli).

Decresce? Verrebbe da chiedere. Ma se è già ai minimi, che necessità c’è ancora di assecondare il darsi sulla voce, la rissa, il battibecco volgare? E non è ancora ricomparso Giletti.

La verità è che la politica in tv sta consumando se stessa. I talk in cui appare officiano una cerimonia cannibale (Salmon) in cui essa si autodivora. La cosa più grave è che i primi a non averlo capito sono proprio coloro che più di tutti ne fanno le spese, i politici appunto. Anche quelli che sembrano trarne qualche effimero beneficio (Di Maio, Salvini, in passato Renzi), non si accorgono che questo format alla lunga ne corrode l’immagine.

Tra l’altro la sempre più scarsa attenzione con cui il pubblico segue la politica in video ci sembra la spia della crescita (ulteriore) dei potenziali astenuti. A questo proposito, è triste constatare per chi ha pensato che la comparsa della politica in televisione fosse un salto in avanti per la democrazia del paese, e indubbiamente lo è stato, come il proliferare dei formati con cui questa è entrata nel piccolo schermo non abbia portato un cittadino in più alle urne: nell’ultimo quarto di secolo la massa degli astenuti è progressivamente aumentata, ma ancora di più lo ha fatto negli anni della moltiplicazione dei programmi, tra il 2005 ed oggi. Innegabile paradosso storico per un genere informativo che voleva allargare la partecipazione e che invece ha contribuito, forse, a ridurla.

Certo, la crisi è anche altro. I corpi intermedi (partiti, giornali, vecchi media) polverizzati dalle nuove forme di comunicazione e dai nuovi media, nel processo più generale che prende il nome di disintermediazione. Ma è altresì vero che c’è stata, come ha scritto Morcellini, la capacità della tv di giocare contro la comunicazione politica, aumentando più che diminuendo l’opacità dei temi trattati. Sommando, diciamo noi, ai livelli già intossicati di politicizzazione dei tiggì, quelli dell’intero palinsesto pubblico-privato. Per risalire occorrerà il coraggio di sparigliare. Nelle formule, negli attori, nei contenuti.