La generazione che lesse Mimesis alla fine degli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta incontrò un modo seducente di studiare la letteratura. Il libro di Erich Auerbach sollecitava un’avventura della mente che non aveva precedenti. Non c’erano molti esempi che potessero reggere il confronto con un viaggio vertiginoso dalla ferita di Ulisse al calzerotto della signora Ramsey. L’audacia del progetto era immensa; l’esecuzione mostrava un conoscitore sapiente delle forme e dei linguaggi letterari, difficile da classificare come studioso: sociologo della letteratura? O esponente della critica stilistica? Oppure storico delle idee? A distanza di tempo, Auerbach è ancora un autore con il quale fare i conti. Lo dimostrano convegni e saggi apparsi in questi ultimi anni, che ribadiscono la necessità di confrontarsi con il senso di quel lavoro e ragionare sulla sua tenuta in contesti culturali ampiamente modificati.

Tre direttrici essenziali
Il libro di Auerbach appena pubblicato da una casa editrice encomiabile come Nottetempo, Letteratura mondiale e metodo Con un saggio di Guido Mazzoni (Extrema ratio, pp. 312, € 19,00) consente, come avrebbe detto Francesco Guicciardini, di fermare il punto, rimettendo in gioco l’intera gamma delle questioni. Il saggio di Guido Mazzoni, d’altra parte, affronta il problema-Auerbach in maniera raffinatamente critica, delineando i fondamenti teorici della formazione, identificando le linee sulle quali l’idea di Mimesis poggia e confrontando quel mondo letterario e filosofico con gli scenari attuali.

Il volume è diviso in tre parti e raccoglie i testi scritti da Auerbach dagli anni Venti del Novecento fino agli anni Cinquanta. Sono interventi in gran parte conosciuti singolarmente (ad eccezione di Vico alle prese con Descartes del 1921, inedito in italiano) e tuttavia il raggruppamento per questioni aggiunge un aspetto che aiuta a capire meglio il profilo del critico e il sistema dell’opera.
L’architettura scelta segue tre direttrici essenziali: la ricostruzione di un principio utile per la definizione del campo letterario in cui Mimesis si inscrive (Letteratura mondiale e metodo); le radici filosofiche su cui la ricerca poggia (Vico, storicismo e filologia, con studi che partono dal 1921 e giungono al 1958, un anno dopo la morte); il confronto teorico e critico con i modi di procedere di antagonisti come Curtius o Spitzer o Wellek.

La ricchezza di questo quadro si alimenta dei principi essenziali della cultura di Auerbach: l’idea di Weltliterature, la storia come motore della vita degli uomini e la filologia come metodo per ricostruire le tappe volta per volta percorse. Nei saggi successivi alla pubblicazione di Mimesis Auerbach torna sui fondamenti del lavoro che ha svolto e ricostruisce le ragioni che lo hanno alimentato.

L’incipit di «Filologia della Weltliterature» (1952) è un manifesto del mondo filosofico che lo ha generato e che sta ormai scricchiolando sensibilmente: «È tempo di chiedersi quale significato possa ancora avere la parola Weltliteratur, letteratura mondiale, goethianamente riferita al presente e a quanto ci si può aspettare dal futuro. La nostra Terra, che è il mondo della Weltliteratur, diventa sempre più piccola e meno varia. Il termine Weltliteratur si riferisce peraltro ai tratti comuni dell’umanità ma non intesi in generale, bensì sotto l’aspetto della fecondazione reciproca di una realtà molteplice». Questa idea unitaria sostiene la possibilità di tracciare un cammino omogeneo da Omero a Virginia Woolf, segnando gli snodi che portano da un’epoca all’altra. Lo scopo è raggiungere la sintesi dell’intero movimento, nella cui unità i singoli fenomeni diventano eloquenti. Nel caso di Mimesis, il sottotitolo, Dargestellte Wirklickheit (rappresentazione della realtà), fissa il fenomeno base, il punto di partenza preciso e concreto che orienta l’indagine e la guida.

Ne nasce «una storia interiore dell’umanità, finalizzata a un’idea unitaria dell’uomo, pur nella sua molteplicità» e «la storia è ciò che ci tocca più da vicino, ci scuote più profondamente e più efficacemente contribuisce a formare la coscienza di noi stessi. È infatti l’unico oggetto nel quale abbiamo davanti a noi gli uomini in toto». La formidabile lezione di Vico, un autore del quale Auerbach avverte l’influsso ininterrottamente, lascia un‘impronta definitiva: a partire dalla definizione stessa di filologia, che contiene nella sua prassi la totalità delle scienze umane.

Lo sforzo è mirato a definire una «topologia storica, nella quale lo scopo principale non è di spiegare la particolarità del fenomeno in sé, ma piuttosto le condizioni della sua nascita e la direzione assunta dai suoi effetti». La porzione di un testo letterario diventa il mezzo per delineare i caratteri di un’epoca intera. Quel frammento è la chiave per intendere gli esseri umani e le società, afferrando il tratto che li definisce rispetto al mondo di prima e a quello successivo. Auerbach combatte programmaticamente qualunque forma di astrattezza, che si aggrappa a formule abusate e del tutto sterili. Al contrario, «bisogna far parlare le cose; se lo spunto non è concreto né ben delimitato, non vi si riuscirà mai. (…) Da ogni parte stanno in agguato idee già fatte, ma di rado veramente appropriate, a volte seducenti per il loro suono e la loro attualità, pronte a inserirsi non appena a chi scrive venga meno la forza dell’oggettività, il che può indurre l’autore (e certamente molti lettori) a sentire al posto dell’oggetto un cliché simile».

Le indagini sui campioni letterari selezionati nella galleria di Mimesis allontanano metodologicamente questo pericolo. «Auerbach usa il gesto tipico della critica stilistica – scrive Mazzoni – l’explication de textes, per costruire un quadro d’insieme, non per parlare di un testo o di un autore».

Nostalgia della critica
Cosa resiste oggi di questo progetto di storia globale e del libro che lo incarna? Quale modello propone a noi, abitanti di un altro millennio? Auerbach, congedando nel 1953 gli Epilogomena a Mimesis, storicizzava rigorosamente il proprio lavoro e avvertiva che «Mimesis è coscientemente un libro scritto da una determinata persona, in una determinata situazione, all’inizio degli anni quaranta». Guido Mazzoni indica la molteplicità delle ragioni che rendono quell’impresa inimitabile, consegnata a una cultura assai distante dalle questioni odierne. Gli orizzonti umani si sono straordinariamente dilatati e le parole al cuore dell’intero edificio (rappresentazione, realtà, letteratura occidentale) sono diventate impronunciabili o almeno pericolose da utilizzare e da intendere.

Il Lord Chandos di Hofmannsthal direbbe che «si disfanno nella bocca come funghi ammuffiti». Eppure, Mazzoni ha ragione quando dichiara che in chiunque abbia vissuto la ricchezza di un libro così vitale resta la nostalgia di un modo di pensare e di praticare la critica. D’altra parte, conviene ricordare ogni volta l’assioma di Walter Benjamin, che vale come promemoria: «non si tratta di presentare le opere della letteratura nel contesto del loro tempo, ma di presentare, nel tempo in cui sorsero, il tempo che le conosce, il nostro».