Secondo un’interessante ricerca (giugno 2017) del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, lo stato di crisi degli enti locali avanza a passi spediti: ad oggi sono 67 i Comuni deficitari (ovvero che sforano almeno cinque dei 10 parametri di deficit strutturale); sono 151 quelli che hanno dichiarato il pre-dissesto (fra questi la città di Napoli, e i capoluoghi Terni, Frosinone, Rieti, Pescara, Benevento, Caserta, Foggia, Cosenza, Reggio Calabria, Catania e Messina); sono infine 107 i Comuni in vero e proprio dissesto.

Una curva crescente che interessa tutti gli enti locali del Paese, sempre più in sofferenza nel mantenere la propria funzione pubblica e sociale di enti di prossimità degli abitanti di un territorio e di garanti dei servizi necessari alla vita dignitosa delle comunità territoriali.

I numeri sopra riportati sono infatti solo la punta dell’iceberg, sotto i quali si muovono oltre quindici anni di misure di austerità che, con l’alibi del debito pubblico, hanno messo i Comuni con le spalle al muro. Un dato per tutti: mentre la quota parte del debito pubblico attribuibile ai Comuni non supera il 2,1% del totale, il contributo richiesto agli stessi, tra patto di stabilità e tagli ai trasferimenti, è passato da 1,6 Mld del 2009 ai 16,6 Mld del 2015.

Dati da cui si evince come ancora una volta il re sia nudo: perché scaricare sugli enti locali la gran parte delle misure di austerità, se non è lì che si è creata la bolla del debito pubblico?

La risposta è tanto semplice quanto indicibile: l’obiettivo non è mai stato la riduzione del debito, bensì l’utilizzo dello stesso come “shock” per spingere in avanti l’erosione dei diritti sociali, la mercificazione dei beni comuni e la privatizzazione dei servizi pubblici.

E poiché la gran parte della ricchezza collettiva del paese (patrimonio pubblico, territorio, servizi) è stata da sempre gestita dagli enti locali, metterli con l’acqua alla gola dal punto di vista economico-finanziario serve a mettere in campo un gigantesco piano di espropriazione sociale a vantaggio degli interessi finanziari, affinché possano mettere a valore tutto ciò che prima era fuori mercato.

Se questa è la situazione, peraltro destinata a peggiorare con il Fiscal Compact e l’obbligo del pareggio di bilancio, occorre un netto cambio di passo da parte delle comunità territoriali.

Le numerose vertenze conflittuali aperte in ogni Comune per i servizi, per i diritti e per i beni comuni devono inserire all’interno della propria battaglia l’indagine indipendente (audit) sui conti del Comune, il livello di indebitamento e la legittimità dello stesso, le modalità di finanziamento e gli sprechi, per fare del quadro economico-finanziario non più la cornice indiscutibile all’interno della quale operare, bensì il terreno di lotta per un altro modello di città, al servizio delle comunità e non dei poteri forti che le sovrastano. Numerose realtà territoriali si stanno avviando in questa direzione, da Roma a Napoli, da Torino a Genova, ma anche Venezia, Savona, Reggio Emilia, Livorno, Grosseto, Taranto, Catania. E naturalmente Parma, la prima a scendere in campo e il luogo dove il prossimo 25 novembre si terrà una giornata d’incontro nazionale di tutte queste e di molte altre realtà.

E’ venuto il momento di provare a socializzare queste esperienze, rafforzandole nel reciproco confronto e riconoscimento e iniziando a costruire una comune piattaforma di rivendicazioni territoriali che mettano al centro il ripudio del debito illegittimo, il contrasto al patto di stabilità e al pareggio di bilancio, la necessità di una nuova finanza locale pubblica e sociale, finalizzata alla riappropriazione collettiva dei beni comuni e della democrazia.

Sarà l’inizio di un cammino, che speriamo lungo,intenso e sempre più reticolare. Per dire tutte e tutti assieme che le nostre vite vengano prima del debito e per rimettere il futuro delle comunità territoriali nell’orizzonte della possibilità.