Esce in sala la Palma d’oro dell’ultimo festival di Cannes, la storia di tre cingalesi che, nel caos della guerra civile, si fingono padre, moglie e figlia per cercare miglior fortuna in Europa. Sulla carta, Dheepan è un progetto ambizioso. Il regista, Jacques Audiard ha dichiarato di voler fotografare un momento della Francia attuale e di aver preso a modello le Lettere persiane. Come in Montesquieu, l’idea, in effetti, è quella di auto-ritrarsi nello sguardo di un presunto osservatore esterno. Bisogna sapere che Jacques Audiard è figlio di Michel, uno dei più celebri sceneggiatori francesi del cinema del dopoguerra (un film per tutti : Quando torna l’inverno, con Jean Gabin e Jean-Paul Belmondo). Alcuni dei dialoghi scritti dal padre sono noti al punto da essere entrati nel linguaggio comune. Era allora un cinema che sapeva essere grande e accessibile al tempo stesso. Oggi quel cinema si è separato in due prodotti distinti, uno commerciale e destinato al grande pubblico, l’altro di qualità e destinato ad un pubblico ristretto. La scommessa di Jacques Audiard, e il suo marchio di fabbrica da sempre, è di tentare di ricreare quell’unità perduta.

È un’ambizione di non poco conto che si scontra con le norme del cinema commerciale. Tre di queste sono considerate inamovibili: un cast di attori attraente, l’uso di una lingua accessibile alla totalità della popolazione e una storia accattivante. In questo senso, Dheepan, parlato al 90% in lingua tamil e con un cast di perfetti sconosciuti, è una vera sfida alle norme della produzione commerciale. Mancando i due primi ingredienti, la ricetta di Audiard consiste nel triplicare la dose del terzo.

Ma il tentativo è tanto nobile quanto è deludente il suo risultato. Fin dal primo minuto, Audiard cattura con mestiere l’attenzione dello spettatore. La storia somiglia in effetti a un grande gioco dell’oca, dove ogni casella sta per una scena. Alla partenza ci sono i tre pedoni: un uomo, una donna, una bambina. Al primo giro di dadi, ecco arrivare un dramma. È la guerra civile che distrugge, uccide, separa. Ma questo male si rivela essere anche un bene: esso offre ai tre sconosciuti la possibilità di unire le forze, di fondare una nuova famiglia, di rifugiarsi in Europa.

Si può andare avanti. Nuovo giro di dadi. Alla seconda casella c’è la Francia. Qui troviamo il padre alle prese col più umile dei lavori da clandestino: vendere cianfrusaglie per strada. Non ha il tempo di vendere una statuetta che gli piove sulla testa la classica retata della polizia. Qui il film sembra dire, proprio come il gioco: «perdete tutto e andate in prigione». Nulla è perduto in verità. In prigione, i servizi sociali accordano al nostro eroe un diritto di asilo e trovano un buon lavoro e un alloggio in periferia per tutta la famiglia… Casella dopo casella, le grane aumentano, per il protagonista così come per le due donne. Non ci si annoia e in più si è soddisfatti perché ogni schiaffo del destino è anche, sistematicamente, un modo per far avanzare i pedoni.

Audiard fa sempre progredire la storia verso un finale positivo. Ma l’happy end da solo non basta. Il regista deve pensare che lo spettatore, da solo, non sia in grado di tenere duro fino alla fine perché decide di tenerlo per mano, quasi fosse un bambino, rassicurandolo ad ogni piè sospinto con tanti piccoli happy end, uno per scena. Per lo spettatore, ridotto ad uno stato di minorità mentale, si tratta di un doppio piacere.

Da un lato ha l’illusione di assistere ad una storia edificante, dove problemi centrali del nostro tempo sono inscritti nell’orizzonte concreto di un uomo comune. Dall’altro, di questo orizzonte non soffre il grigiore e la pena visto che Audiard non ne conserva che l’idea di un ostacolo temporaneo, sul quale l’eroe fa leva per innalzarsi nello scacchiere sociale. C’è una parola che descrive bene quest’operazione: ideologia. Quella di Dheepan è accattivante e a poco prezzo.