Saranno sicuramente tra i film più attesi della prossima Mostra del cinema di Venezia e della prossima stagione le incursioni nel western di due registi europei come Jacques Audiard e Joachim Lafosse.

Per il primo si tratta di The Sisters Brothers tratto dal romanzo dello scrittore canadese Patrick De Witt sulle “gesta” nient’affatto eroiche ma non per questo meno violente dei fratelli del titolo. Ancora più curioso si prospetta Continuer, del belga Joachim Lafosse, tentativo di radicale scardinamento di quello che una volta era il genere predominante del cinema americano o, per citare André Bazin, le cinéma américaine par excellence. Protagonista è infatti una donna che attraversa il Kirghizistan per portare lontano il figlio da un ambiente dominato dalla violenza e dalla sopraffazione.

Insomma, tutto il contrario di quello che era il cinema western che abbiamo conosciuto, nel quale le donne erano perlopiù, al di là di qualche eccezione, figure marginali, di contorno e soprattutto dove la violenza era esaltata come unico strumento a disposizione per chi volesse farsi strada.

D’altra parte nessun genere cinematografico come il western si è prestato ad essere oggetto di riletture costanti, figlie di mutamenti culturali, di diversi approcci al tema del rapporto tra gli anglosassoni e le altre minoranze, nativi compresi.

Per cui alla fine la domanda è in fondo sempre la stessa: ma cos’è davvero il western e che rapporto c’è tra la storia e le rappresentazioni fornite dall’industria culturale, cinema su tutti?

Una risposta potrebbe essere contenuta in quell’inestricabile intreccio di storia e mito che sin dall’inizio ha accompagnato l’epica della conquista dell’Ovest selvaggio, come ci spiega il libro di Bruno Cartosio Verso Ovest (Feltrinelli, pp. 448, € 29).

La data chiave è il 1893. A Chicago si svolge l’Esposizione Universale, una colossale occasione per gli Stati Uniti di mostrare al mondo intero la propria forza, la propria giovinezza, le proprie possibilità. Accorrono milioni di visitatori a visitare i padiglioni, le conferenze, gli spettacoli. Da una parte c’è uno storico, da alcuni definito il “migliore della sua generazione”, Fredrick Jackson Turner, che enuncia le sue “tesi della frontiera”, in cui tutta la vicenda dell’espansione americana verso Ovest viene presentata come un fatto inevitabile, inscritto nel destino di grande potenza di questa nazione, anzi di questo impero.

Da un’altra parte dell’esposizione si svolge il Wild West, una sorta di baraccone in cui William “Buffalo Bill” Cody mette in scena l’epopea del selvaggio West. Un condensato di tutti quelli che saranno poi gli ingredienti principali di quella storia: pistoleri, cowboy, bufali, pellirossa, Winchester e così via.

Da tempo Buffalo Bill ha smesso di fare lo scout e si è dedicato all’attività di impresario, regista e attore teatrale. La sua fortuna è stata colossale, ha girato tutto il mondo, arrivando perfino al cospetto della regina Vittoria per rappresentargli questo capitolo fondamentale della storia degli Stati Uniti.

Sia l’elaborazione teorica di Turner che la vis spettacolare di Cody contribuiscono alla creazione di quella narrazione mitologica essenziale al consolidamento dell’identità dell’America degli anni a venire. “Quelle che vengono condensate nei miti- scrive Cartosio- dunque, in particolare nelle elaborazioni della cultura alta, sono sempre soltanto le parti della “storia” nazionale riconducibili alle aspirazioni, agli obiettivi e alle pratiche egemoniche di specifiche componenti sociali, le classi dominanti.”

Alla base di questa grande macchina mitopoietica che si articola e si viene a delineare negli ultimi decenni del XIX° secolo c’è la dualità, la contrapposizione tra civiltà e barbarie, razionalità e irrazionalità, cultura e sottosviluppo.

L’appropriazione dei territori sottratti a indiani, messicani e così via viene narrata come la dura lotta da parte degli eredi della civiltà occidentale (e anglosassone) per portare in quelle terre desolate la luce della ragione e della cultura. Ovviamente si è trattato di ben altro, basterebbe citare, come fa Cartosio, i 370 trattati stipulati con gli indiani, tutti regolarmente traditi dal governo federale.

La macchina mitologica della Conquista dell’Ovest, espressione coniata non a caso da un futuro presidente come Theodore Roosvelt, non è dunque solo una costruzione posticcia, messa su dai vincitori per abbellire i propri risultati, ma un processo di giustificazione e di rifondazione dell’identità americana uscita abbastanza a pezzi dalla guerra di secessione che aveva visto gli Stati del Nord contro quelli del Sud.

Questa visione della Storia esula dal solo “selvaggio” West e si proietta a tutti gli Stati Uniti, diventando un vero e proprio paradigma interpretativo in grado di acquistare una forza dirompente proprio per la sua capacità di utilizzare figure, personaggi e situazioni e renderli strumento della cultura popolare.

Basti pensare al destino toccato a Deadwood, una cittadina del Sud Dakota con oggi poco più di mille abitanti, di cui solo un’esigua percentuale costituita da nativi. Quando nella seconda metà dell’ottocento giungono qui i pionieri, si trovarono di fronte, secondo il sito ufficiale del paese (www.deadwood.com), una serie di alberi morti, da cui il nome del luogo, e un fiume carico d’oro.

Arriva a Deadwood anche Wild Bill Hickcock, il leggendario pistolero persuaso di non aver più la mira di un tempo e deciso a convertirsi in cercatore d’oro. Ma proprio qui, poche settimane dopo il suo arrivo, Wild Bill troverà la morte, colpito alle spalle mentre sta giocando a poker.

E’ il 2 agosto 1876.

Deadwood da quel momento diventa uno dei santuari della mitologia western, la tomba di Wild Bill è racchiusa da una cancellata per scacciare i ladri che più volte hanno saccheggiato la lapide. Accanto a lui c’è Calamity Jane, secondo la leggenda la sua fidanzata, secondo i suoi biografi i due si erano a malapena sfiorati. Un altro momento in cui leggenda e storia si sono separate senza nuocere a quest’ultima. Anzi. Basti ricordare la recente e bellissima serie tv di qualche anno fa targata HBO, intitolata proprio Deadwood.

Ed oggi Deadwood Dick è il nome del protagonista di una nuova collana di fumetti Bonelli, Audace, in cui si rielaborano temi e figure di un maestro del western contemporaneo come Joe R. Lansdale.

Nel primo volume, uscito da poco, il protagonista Nat Love, conosciuto appunto anche come Deadwood Dick, si arruola fra i soldati di colore del nono cavalleggeri, impegnato nella lotta contro gli indiani per la conquista dei territori dell’Ovest.

Nat Love, alias Deadwood Dick, è un personaggio realmente esistito, all’inizio del novecento pubblica la sua autobiografia in cui racconta di aver incontrato personaggi come Pat Garrett, Billy the Kid e molti altri. Il libro diventa un best seller, aggiungendo un altro tassello al mito del vecchio West.