In giro c’è un culto delle «cose pratiche», sempre più a suo agio nell’opposizione alla «praxis», l’azione dell’uomo che ha come obiettivo la sua realizzazione politica e personale. Le «cose pratiche» sono il substrato necessario dell’esperienza umana. Esso include la conservazione della vita biologica, le tecniche di produzione e le strutture logistiche che preparano e consentono il dispiegamento di desideri, sentimenti e pensieri che costituisce l’esperienza come trasformazione coinvolgente della nostra materia psicocorporea.

L’esperienza e le sue condizioni tecniche sono tra loro eterogenee. La concatenazione di orari e tragitti per l’effettuazione di un viaggio si può fare in modo meccanico, non richiede un coinvolgimento emotivo. È del tutto indipendente dal modo con cui chi fa il viaggio lo esperisce. Non è quindi di per sé una creazione soggettiva.

Per converso, la capacità di fare esperienza può appropriarsi delle sue condizioni logistiche e farne un fatto piacevole, creativo. Preparare un viaggio può essere divertente e costruire un paio di scarpe o un computer può mettere in movimento una potenza espressiva che non deriva dalla conoscenza e l’applicazione delle regole e delle modalità tecniche della costruzione.

Ciò a cui assistiamo oggi è l’inversione netta dell’egemonia dell’esperienza sulle sue premesse «pratiche» che è la condizione fondante della civiltà e di ogni processo di soggettivazione dell’esistenza umana.
La compulsione a definire problemi pratici da risolvere, a impostare e realizzare la loro soluzione, sta sostituendo la disponibilità a vivere e condividere esperienze.
Il rendimento è l’unico obiettivo di questo modello operativo di vita che rende l’uomo omogeneo alla macchina. L’avvento dell’“uomo pratico” trasforma l’agire umano in comportamenti dettati da schemi mentali che costruiscono i problemi che risolvono.

Se il mondo venisse conquistato dalle macchine mentali, gli esseri umani si trasformerebbero in entità performanti in tutto uguali. Questa uguaglianza cancellerebbe la differenza e la parità e consegnerebbe all’arbitrio e alla violenza il governo della nostra esistenza.

Hanna Arendt ha distinto, seguendo Aristotele, tra sfera «sociale» dove gli uomini sono accomunati, indifferenziati dalla necessità e sono impari sul piano del potere, e sfera «politica», dove essi affermano la loro differenza e libertà e sono pari. In “Vita activa”, la vittoria della società sulla Polis è associata alla capacità delle «scienze del comportamento», di «ridurre tutto l’uomo, in tutte le sue attività, al livello dell’animale condizionato che si comporta in modo prevedibile».

La sgradevole efficacia delle leggi del comportamento, che fanno della statistica lo strumento principale del controllo sociale, deriva, secondo Arendt, dal fatto che quanto più si ha a che fare con grandi numeri di persone, tanto più probabili sono l’adeguamento al modo di fare di tutti e il rigetto del non conformismo.

Più spariscono le differenze e le particolarità culturali, più gli uomini si omologano in insiemi indifferenziati fatti di grandi numeri e più la predeterminazione del loro agire domina la loro vita. La difesa delle differenze, che è difesa della libertà e della parità degli uomini-cittadini, è la condizione principale della riaffermazione del primato della politica sulla società.

In un mondo sempre più globalizzato è bene comprendere che lo scontro vero sui migranti non si gioca sull’opposizione tra misericordia e crudeltà, tra accoglienza e rigetto, ma su quella tra l’intesa che accresce il gioco delle differenze e l’integrazione omologante.