Dal movimento studentesco del 68 a il manifesto, dalla sua Soleto, nel Salento, ai tanti anni passati a lavorare negli Emirati Arabi, in Africa e nel sudest asiatico, prima in progetti di ingegneria civile in quanto geologo, quindi impegnato a importare oggetti di artigianato con la sua ditta Terre Lontane. Una vita in movimento quella di Umberto Manni, ora racchiusa in Memorie, un libro di 174 pagine (12 euro compresa la spedizione) che si può richiedere direttamente al suo autore: umberto.manni@virgilio.it.

Cosa ti ha spinto a scrivere queste memorie?

È nato per gioco l’estate scorsa quando ho – come si dice adesso – postato su Facebook dei piccoli flash, pillole di memoria le avevo chiamate, su episodi della mia vita all’estero, in Asia e in Africa, e del mio ’68 romano. In seguito a incoraggiamenti ricevuti da amici mi sono deciso a ricucire questi pezzi, arricchirli, elaborarli fino ad arrivare a questa sorta di autobiografia pubblicata alcuni mesi fa. Non si tratta di un testo romanzato, del resto non sono mai stato uno scrittore, in vita mia ho scritto solo la mia tesi di laurea, l’ho scritto soprattutto per lasciare un ricordo, una testimonianza, un piccolo strumento al mio unico grande amore, mio figlio Arnaud, che oggi ha 36 anni. Il libro è dedicato a lui.

Nel 68 eri a Roma e abitavi nella Casa dello Studente…

No, io ho fatto il mio ’68 con un leggero ritardo, la mia acquisizione di una coscienza politica e militanza parte dal 1969 giacché nel ’68 ero militare, prima a Palermo, poi a Roma alla Cecchignola e poi a Bolzano, esperienza bellissima, quando salivamo su con la jeep tra le montagne vedevo in Val d’Isarco i piloni della costruenda autostrada del Brennero.
Iscritto all’università a geologia diedi i miei primi due esami. Avevo un po’ paura di questa facoltà scientifica perché ero sempre stato asino in matematica, però presi le cose di petto, diedi matematica e presi 30, non so come accadde, secondo esame, la mia passione, la geografia, 30 e lode. Per via della mia condizione economica e degli ottimi voti ottenni il cosiddetto presalario, ossia un posto alla Casa dello Studente, e questa fu la svolta della mia vita. Alla Casa dello Studente conobbi decine, anzi direi centinaia di altri giovani come me prevalentemente meridionali e costituimmo il Collettivo Fuorisede. Per la sua vicinanza alle mura della città universitaria e per la mensa, la Casa dello studente fu un costante punto di riferimento della contestazione studentesca. Ricordo in particolare il 12 dicembre 1969, giorno delle bombe di Milano, quando apprendemmo la notizia nella cosiddetta stanza tv della Casa dello Studente in un casino indescrivibile.

Qualche mese fa nel 50° del ’68, hai organizzato una riunione di ex occupanti la Casa dello Studente…

Non è esatto dire che l’ho organizzata io da solo, è stata l’iniziativa di un gruppo di ex studenti della Casa dello Studente che si sono cercati e ritrovati usando Facebook. Oltre 50 settantenni il 2 giugno di quest’anno ci siamo ritrovati a Roma per una due giorni alla Casa dello Studente, gentilmente concessaci dal direttore dell’Opera Universitaria. Si è dibattuto, sono state proiettati video e foto dell’epoca, mi hanno concesso dieci minuti per presentare questo mio libro e ho avuto la fortuna di vendere le 50 copie che mi ero portato. In tutto hanno partecipato una sessantina di persone, di cui 45-50 del vecchio collettivo. Non è stato un amarcord, c’era il rischio che lo fosse, scattavano gli applausi quando si vedevano i più popolari di noi, per esempio Adriano Pace coi suoi meravigliosi capelli lunghi, lui era presente, calvo ora ma sempre simpatico. Abbiamo ricordato alcuni di noi che non ci sono piu, tra cui Ignazio Garau, morto recentemente, un sardo fotografo molto bravo, 22enne all’epoca. Nella sua stanza n. 99 sul soffitto penetrarono un paio di proiettili quando il 2 febbraio 1971 – lo racconto nel mio libro – la Casa dello Studente fu assalita da polizia e carabinieri. Probabilmente l’avevamo fatta grossa, avevamo «invitato con forza» due poliziotti in borghese che abitualmente ci sorvegliavano a seguirci all’interno della Casa dello Studente. Fu considerato un sequestro di persona e partì l’assalto non solo con manganelli ma anche con colpi di pistola.

I tuoi rapporti con il manifesto come sono iniziati?

Anche se subito dopo si tramutarono in rapporti confidenziali per il fatto che cominciai ad avere una relazione con una compagna che lavorava in redazione, i miei rapporti col manifesto furono innanzitutto politici, fu una adesione politica. Quando dopo 2 anni per via di esami non tenuti regolarmente dovetti lasciare la Casa dello Studente, andai ad abitare nel centro storico a Torre Argentina, di fianco alla sede nazionale del Partito Radicale, con una dozzina di altri ex occupanti della Casa dello Studente. Eravamo tutti più o meno sui 22 anni, per lo più meridionali, e costituimmo una sorta di comune, una bellissima esperienza, qualche discrepanza, nessuno lavava volentieri i piatti, ma un bellissimo esempio di convivialità e di corresponsabiltà, con la messa in comune dei quattro beni che avevamo. Questa comune è stata soprannominata la corte dei miracoli, ci passò un sacco di gente, quando ho parlato di una dozzina di persone intendevo i fondatori ma c’era sempre gente che andava e veniva, chi restava un mese, chi pochi giorni. Per una settimana ospitammo anche Anna, una ragazza incinta, senza compagno né marito, divenuta poi la protagonista del famoso film Anna di Alberto Grifi.
Lasciata la comune per dei dissapori, andai a vivere con la mia fidanzata, una redattrice de il manifesto, in una casetta piccola piccola, minuscola, in via Campo Marzio, a 200 metri da via Tomacelli dove aveva sede il manifesto. Per il fatto che avevo là la ragazza, per il fatto della visione politica, cominciai ad essere lì un po’ di casa, tanto che cominciarono ad affidarmi piccoli incarichi – mai scrivere per carità, non ero assolutamente all’altezza – come il controllo delle rese e cose del genere. Una volta mi inviarono a Milano di sera in aereo: «Umberto vai di corsa porta la bozza del giornale»…perché allora il manifesto – unico in Italia assieme all’Avvenire – aveva un impianto di teletrasmissione per stampare a Milano la stessa versione che si stampava a Roma, per raggiungere più facilmente tutto il nord. Presi l’aereo, mi recai a Milano e la notte stessa, consegnata la bozza, tornai a Roma in autostop fiero di poter raccontare ai miei amici del giornale, ai compagni, di non aver fatto spendere soldi al giornale per l’aereo. Anni più tardi ho scritto anche alcuni articoli per il manifesto, nel periodo in cui stavo all’estero.

Cosa ricordi di quei primi tempi al manifesto?

Il collettivo, l’atmosfera di lavoro, di collaborazione che probabilmente non avresti visto in altri giornali. Ora ci sono solo 4 o 5 persone tra quelle che conoscevo. Ci si salutava incrociandoci in corridoio. La mitica Rossana Rossanda era pressoché inarrivabile, anni dopo tornando dal Gabon le portai in regalo due statuine di pietra che lei apprezzò e mi ricevette nella sua casa ai Parioli. Ricordo Marco Cinque, studioso degli indiani d’America, fratello d’adozione di molti detenuti nel braccio della morte dei carceri americani, lavorava all’archivio. La sua mamma, Giovanna Falli, fu un personaggio mitico del manifesto, centralinista, ebbe 7 o 8 figli, era una autentica proletaria delle lotte di San Basilio. Stefano Crippa e suo padre Giuseppe, era l’amministratore e nella sua stanza conservava un quadro al muro con una moneta da 50 lire, la prima moneta di sottoscrizione entrata al giornale. Ho conosciuto Tommaso di Francesco, Agostino, Silvana Silvestri, Norma Rangeri, e tra quelli che non ci sono più la grande Angela Pascucci, Giuseppina Giuffrida, Grazia Gaspari compagna di Rocco Pellegrini. Nel 1972 dopo un aspra discussione interna il manifesto si presentò alle elezioni, anche per liberare Valpreda, C’erano i favorevoli a presentarsi alle elezioni, chi preferiva l’astensione e chi voleva far confluire i voti sulle liste del Pci. Prevalsero i primi e fu un fallimento, si prese lo 0,7% mi pare, che comunque erano molti voti (224.313 – 0,67%. Ndr.). Si votava anche nel mio piccolo paese, Soleto, in provincia di Lecce, e ricordo due aneddoti della visita di Valentino Parlato, capolista del manifesto in Puglia. Lo invitammo a Soleto dove avevamo aperto una sede del manifesto. Noi a Soleto non è che abbiamo chiesto il permesso a Roma per aprire il nostro circolo del manifesto. I rapporti non erano burocratici. Come in molti altri centri del meridione gli studenti universitari che tornavano nei paeselli portavano un fermento in più e si collegavano a quelli già attivi in loco. Nella piazza principale del paese aprimmo questa sede al primo piano, con un balcone dal quale si tennero dei comizi. Di Valentino ricordo che in un’unica serata tenne tre comizi, un tour de force, intervallati dal tempo necessario per spostarsi da un paese all’altro, Galatina, Soleto, Martano. A Galatina il comizio fu disturbato da un gruppetto di fascisti e Valentino, con grande sangue freddo e con grande sosrpresa nostra perché non pensavamo che arrivasse a tanto, al limite dello scontro, invitò chi stava protestando a ricordarsi di piazzale Loreto. Un’altra volta a Lecce dopo il comizio due o tre gruppi si recarono ad attaccare manifesti per la città. Una squadra era costituita da Valentino e Gigi Perrone, un noto professore universitario allora molto giovane, ancora militante ora impegnato per i rifugiati. I due furono sorpresi da una pantera della polizia, gli chiesero i documenti e quando videro che Valentino era giornalista e Gigi professore universitario, stentarono a crederci e chiesero informazioni in questura su cosa fare, per loro era inconcepibile che un giornalista e un professore attaccassero manifesti.

I tuoi primi viaggi

Prima di andare all’estero per lavoro, i primi viaggi li feci ventenne in autostop in giro per l’Europa nel 1967, ’69 e ’70. La cosa da sottolineare, che puo’ avere anche una valenza per capire la mia personalità e il mio spirito d’avventura chiamiamolo così, è il fatto che questi tre viaggi li feci rigorosamente da solo. Nel 1970 a Parigi in Place St. Michel col mio zaino in spalla incrociai una bella ragazza bionda, anche lei con lo zaino. Fraternizzammo, le dissi che alloggiavo da un amico un po’ in periferia verso Place d’Italie, e se voleva poteva farne uso. Venne, ci mettemmo insieme, continuammo il viaggio in autostop per Svizzera, Italia e Olanda. Era californiana, si chiamava Evie. Arrivammo anche a Roma dove, nonostante nel periodo estivo non fosse consentito, mi misero a disposizione una camera alla Casa dello Studente. Alcuni anni dopo intorno al 1976, quando già ero in Africa, accadde che l’amministratore americano della società per cui lavoravo, tale Bill Pierson, un omosessuale dall’indole mite al quale tutti volevano bene, mi fece conoscere una tariffa aerea speciale con la quale senza pagare nulla potei cambiare il mio biglietto di ritorno in Italia, il mio biglietto delle ferie, in uno che mi portò in alcune capitali africane, Lomé e Lagos, poi a Madrid, L’Avana, Merida in Messico e San Francisco. Qui andai a trovare Evie. Molto hippie abitava in un camper gigantesco, lunghissimo, che all’interno era come un giardino disseminato di piante. In quei giorni accadde un episodio di cui ancora mi vergogno. Andai a Berkeley e sulle gradinate di un edificio universitario, chiaramente riconoscibili dai capelli lunghi, dagli abiti, dai dazebao e i manifesti murali che avevano alle spalle, c’erano degli studenti del movimento. Parlando, di America, di Europa, di sinistra, dissi che ero del manifesto e loro mi dissero di conoscerlo sia come formazione politica che come giornale, e convenimmo che avrei tenuto un piccolo incontro con loro all’università. Fissammo l’incontro, ma poi mi prese una tale paura, forse anche per il mio inglese all’epoca approssimativo, che non mi presentai all’appuntamento. Ma questo è niente, non avevo un numero di telefono per avvisarli, avevo lasciato loro il numero di Evie…e quando tornai a casa lei mi fa «che fai qui? Mi hanno chiamato da Berkeley, c’è un’aula intera che ti sta aspettando…». Di questa storia mi vergogno ancora.

Cosa ti ha spinto a vivere così a lungo fuori dall’Italia?

Me lo sono chiesto anch’io e ne parlo nel libro. Una risposta potrebbe essere nel rapporto conflittuale che ahimè ho sempre avuto con i miei genitori. Sin dall’adolescenza ho cercato di mettere la distanza maggiore tra me e l’ambiente familiare di allora, quello dell’adolescenza, della primissima gioventù. Un’altra risposta potrebbe essere la mia passione antica per la geografia. Da bambino sui 7-8 anni mi divertivo a riprodurre carte geografiche, malamente ovviamente, disegnavo a colori i singoli stati, i pallini per le capitali, conoscevo le capitali di quasi tutti i paesi del mondo. Mio papà mi regalò qualcosa che definisco mappamondo ma non lo era, erano due dischi piatti sovrapposti che si facevano scorrere e da alcune finestrelle comparivano le capitali, le lingue, le religioni, i nomi dei paesi e così via. Già da allora avevo questo amore per la geografia e questa potrebbe essere la seconda ragione.

In Africa hai imparato qualche lingua?

In Gabon dove ho soggiornato 5 anni mi dispiace molto di non aver imparato il Fang, la lingua parlata dai due terzi della popolazione e dalla mamma di mio figlio. Lei è gabonese, ora vive in Francia, ha sposato un francese e ha diversi altri figli. Nostro figlio Arnaud è il suo primogenito. Non abbiamo mai avuto in programma di sposarci, lei sapeva che a fine lavoro in Gabon sarei andato via, quindi non fu un abbandono ma un fatto consensuale l’esserci lasciati. Quando arrivò il figlio lei volle assolutamente tenerlo, non rinunciare al parto, ma subito dopo fu d’accordo con me nell’affidarmelo, convenne che l’avvenire del bimbo sarebbe stato più felice con me in un contesto europeo. Questo mi ha posto in una posizione molto atipica, a Soleto mi hanno visto un po’ come un marziano, un ragazzo-padre che ha cresciuto il figlio da solo. Arnaud parla il dialetto soletano meglio di me.

Quanti anni hai vissuto in Africa?

Oltre 11 anni, intervallati da brevi periodi in Italia. Oltre che in Gabon sono stato in Nigeria, in Benin, in Camerun e in Burkina Faso, ex Alto Volta, nome voluto da Thomas Sankara che vuol dire paese degli uomini degni, integri. Nel 1984 in Camerun abitavo a Yaoundé. Ci fu un tentativo di colpo di stato e noi avevamo la casa che guardava proprio il palazzo presidenziale. Mi ricordo gli assalitori respinti, gli elicotteri sopra di noi e lo scoppio delle granate. Non uscimmo da casa per tre giorni per il coprifuoco.
In Africa tranne numerose compagne non ho sviluppato grandi amicizie. Con le donne africane devi scontrarti con una mentalità molto diversa. In Africa ai tempi miei per la più parte delle ragazze avere un figlio fuori dal matrimonio era un fatto importante, perché quando hai un figlio e non sei sposata il figlio è tuo, di te donna, mentre quando sei sposata se c’è una separazione la legge di solito assegna il figlio al padre, e tu perdi il figlio in un paese dove non esistono coperture sociali per la vecchiaia.

Alla fine dell’89 sei rientrato in Italia e hai aperto Terre Lontane…

Per ragioni legate alla scolarità di mio figlio che non poteva essere sbattuto da un paese all’altro, decisi di interrompere l’attività precedente, i progetti stradali, ferroviari, dighe, progetti di ingegneria civile. Rientrato in Italia e chiedendomi che fare per campare mi inventai una attività di importazione di mobili e artigianato artistico dal sudest asiatico, soprattutto Indonesia ma anche Thailandia e Vietnam. Questa ditta si chiamò Terre Lontane, era molto nota nel Salento perché oltre ad avere la sua base a Soleto era presente nelle varie marine, Gallipoli, Castro, Porto Cesareo, Otranto, Torre dell’Orso. Tra il 1990 e il 2008 ho fatto circa 55 viaggi nel sudest asiatico. Un po’ per sponsorizzarci, un po’ per la mia indole, Terre Lontane è stata anche una piccola fucina di iniziative culturali e sociali. L’impegno sui referendum, le battaglie con Vendola nella cosiddetta primavera pugliese, il movimento dei no-global di Porto Alegre, i cosidetti social forum, ne aprimmo uno a Lecce e uno qui in zona. E poi attività schiettamente culturali come le mie lezioni sull’evoluzionismo, basate sulla mia formazione geologica, paleontologica e sugli studi di Cavalli Sforza sulla genetica delle popolazioni umane. Due iniziative in particolare voglio segnalare, l’utima, poi abbiamo dovuto chiudere Terre Lontane per gravi difficoltà economiche: una videoconferenza con Margherita Hack che non potendo per ragioni di età e di salute venire a Soleto, si concesse in videoconferenza. Era una bella tiepida sera di settembre mi pare del 2011 e a seguire Margherita Hack c’erano 600 persone in piazza a Soleto. Nel 1998 organizzai «A 30 anni dal ’68», una settimana con foto, proiezioni, poster, dibattiti e l’ultima sera venne a suonare un gruppetto di ragazzi, giovanissimi, ventenni, di Copertino. Il loro compenso fu una pizza in trattoria. Uno di loro si chiamava Giuliano Sangiorgi, divenne anni dopo il leader dei Negramaro.
La prima parte del mio libro descrive la mia infanzia e la Soleto degli anni ’50, che non esiste più. La piazza principale del paese dove si riunivano gli anziani o la villa comunale, come qui chiamiamo i giardini pubblici, sono ora quasi deserte, la maggior parte delle case del centro storico è sfitta, Nel libro c’è una lista dei locali che esistevano una volta, come le osterie, ce ne erano 10 o 12, ora non ce ne è nessuna, sono sparite…ti servivano il vino sfuso in bicchieri da mezzo quinto, o da quinto, rigorosamente rosso, con uova sode, tarallini, o al più pezzetti di cavallo al sugo, una specialità locale. Ora ci sono le enoteche, i vine-bar e le pizze al taglio, è così in tutto il Salento. Tanti anni fa una volta assistetti allo «spettacolo» delle prefiche, che qui chiamiamo chiangimorti, che si strappavano i capelli urlando il nome del defunto steso davanti a loro. Non esistono più.

Ci sono immigrati a Soleto?

C’è un numero elevato di rumene e polacche che fanno le badanti, albanesi che fanno i manovali e marocchini che fanno gli ambulanti. Però non c’è quel tipo di immigrazione che sta dando un po’ di problemi in alcune città del centro nord. A Soleto non c’è un «problema immigrazione», ma come altrove c’è un problema di mentalità delle persone.