«Fingiamo di poterci entrare, Frufrù, fingiamo che lo specchio sia morbido come un velo, e che si possa attraversare. To’, adesso sta diventando come una specie di nebbia… Entrarci è la cosa più facile del mondo».

Ed ecco che Alice attraversa lo specchio, diventato magicamente fluido, per ritrovarsi in un altro spazio tempo; una immagine affascinate, ripresa in altrettante varianti da decine di racconti e pellicole.

Pura fantasia? Niente affatto: ma allora, è possibile attraversare uno specchio come accade all’eroina di Lewis Carrol?

La risposta, mirabile dictu, è affermativa: è la struttura stessa dello specchio che ci dà modo di giocare con il potenziale di questa immagine poiché, come constata Alice, il vetro è un fluido, una specie di nebbiolina appunto, seppure di altissima viscosità e con legami intermolecolari ed attriti che ne mantengono inalterata la forma per lunghissimi periodi; la sua natura essenziale è quella di un liquido sottoraffreddato con una cristallizzazione irregolare, più o meno densa, come un’altra entità che molto gli assomiglia: il tempo.

Rilke, nel terzo dei suoi Sonetti a Orfeo, canta il mistero di questa analogia: «Specchi, nessuno mai coscientemente ha descritto la vostra vera essenza. Voi, intervalli del tempo, crivelli fitti di innumerevoli buchi» mentre Borges, il grande poeta spaventato dagli specchi, prova a descriverne i confini: «Dove finisce e inizia, inabitabile, l’impossibile spazio dei riflessi».

Anche Giano, il dio bifronte le cui facce guardavano verso tempi diversi, viene rappresentato con volto speculare: due occhi condannati a non guardarsi mai.

E allora, in attesa di transitare fattualmente attraverso l’impossibile spazio dei riflessi borghesiani, noi procediamo quotidianamente verso un altro passaggio: non nella materia specchiale, ma nel tempo, anch’esso un fluido dalla natura frammentaria. Specchiandoci, infatti, cosa vediamo se non il flusso del tempo che passa? C’è da chiedersi se questo avviene perché lo specchio, come gli orologi molli di Dalí, fluisce lui stesso.

L’ingannevole continuum della vitrea materia, erratico come lo è il tempo, riflette così esattamente la relazione tra Kronos e Kairos, le facce speculari che addensano o dilatano il suo corso. Lo specchio si mostra dunque eracliteo, come l’acqua del fiume: in esso si riflette perfettamente il panta rei, il tutto che scorre. Non si può mirare due volte lo stesso specchio poiché anche l’immagine che esso rimanda è sempre diversa, eppure familiare.

È così l’attraversamento dello spazio tempo specchiale crea Das Unheimliche, il «perturbante», come lo definiva Freud, cioè quel sentimento che nasce da ciò che viene percepito come possibile ed impossibile al tempo stesso, come un sottile quanto avvertibile scollamento della realtà.

Attraverso lo specchio

Ma se la materia dello specchio non è omogenea in tutte le sue parti, possiamo pure immaginare che le sue linee di rottura, o di attraversamento, sono sempre diverse, specifiche, in qualche modo correlate con chi lo attraversa o lo frantuma.

E dunque non c’è un solo modo di frantumare o attraversare lo specchio: ad ognuno il suo. È questa, a ben vedere, la costante che ritroviamo in tutta la letteratura e nella cinematografia del genere: la natura del transito, o della rottura, non è semplicemente funzione della forma o della densità dello specchio, ma dipende altresì dall’inclinazione dell’attraversatore, dal suo clinamen; come nell’Opus magnum del processo alchemico l’intento dell’operatore influenza la materia operata, e vice versa.

Lo specchio che si attraversa o si frantuma per ritrovarsi o perdersi dall’altra parte, non è allora l’algido e distante oggetto del verso di Mallarmé: «Oh specchio, fredda acqua della noia nel tuo riquadro gelato…», bensì lo Speculum majus di Vincent de Beauvais, morto nel 1264 che, nell’omonima enciclopedica opera, descrive il Mondo quale immenso teatro catrottico in cui il Tutto si specchia nel proprio riflesso, dove la Natura naturans di Giordano Bruno e Spinoza si riflette, senza decrescere, nella Natura naturata dell’uomo.

Secondo Maestro Eckart (XVI sec.): «Il riflesso dello specchio nella luce del sole è nel sole stesso; eppure sole e specchio restano quello che sono. Lo stesso accade per Dio: egli si trova nell’anima… eppure non è nell’anima, è il riflesso dell’anima che è in Dio… Dio diventa così ogni creatura».

In questa visione del mistico medioevale troviamo tutte le componenti immaginali dello Speculum majus, quello che attraverseranno personaggi letterari come Alice e Lord Patchouge, o cinematografici quali Orfeo ed il Poeta di Cocteau, dei comics come Mandrake in lotta contro il malvagio popolo degli specchi, o ancora quello in cui si trasformerà L’uomo di vetro di Paul Valéry.

Lo specchio di questi personaggi non solo si lascia attraversare, ma si fa attraversare, accordando la propria natura a quella dell’attraversatore; così come lo sguardo del dio di Maestro Eckart trasmuta il suo stesso vedere nel vedere di chi lo guarda.

Il tempo e lo stato fisico dello specchio diventano così tutt’uno con l’intento dell’attraversamento: in questo istante preciso, in questo kairos, ci si ritrova di fronte a questo specchio, e non ad un altro, che ora ricombina la sua natura con quella del suo attraversatore, si fa attraversare attraversandolo, mutando la consistenza degli stati fisici che può assumere: liquido, solido, gassoso.

Trasmutazione specchiale

E allora, diversi sono i modi di attraversamento e le conseguenti trasformazioni di stato.

Il passaggio di Alice è in modalità sublimata, cioè dal solido al gassoso direttamente: «Alice stava sulla mensola del caminetto mentre diceva così, sebbene non sapesse spiegarsi come fosse arrivata lassù. E certo il cristallo cominciava a svanire, come una nebbia lucente. L’istante dopo Alice attraversava lo specchio e saltava agilmente nella stanza di dietro. La prima cosa che fece fu di guardare se ci fosse il fuoco nel caminetto, e fu tanto contenta di vedere che ce n’era uno vero, pieno di fiamme vive, come quello che aveva lasciato nel salotto».

La suggestione è talmente forte che anche Topolino, in un cortometraggio del 1936, attraversa lo specchio come Alice, questa volta in modalità liquida, cioè tuffandocisi dentro, per trovarsi poi in un mondo fiabesco di oggetti animati.

L’onirismo del tuffo attraverso lo specchio ridivenuto liquido mercé la sua capacità trasmutante è ancora più accentuato ed esplicito in due film di Cocteau.

Uno è Il sangue di un poeta del 1930. Ecco la storia: un pittore dipinge un volto sulla tela appena abbozzata. Improvvisamente la bocca del disegno si mette a parlare; il pittore cerca di farla tacere, ma le labbra gli segnano il palmo della mano. Disperato le imprime su di una statua che, anch’essa, comincia a parlare: dice insistentemente al pittore di attraversare uno specchio se vuole liberarsi di lei.

La statua: «Ti resta una via d’uscita. Entrare nello specchio e passare di là».

Il poeta: «Non si entra negli specchi».

La statua: «Prova, prova sempre».

Dapprima esitante, il pittore tasta la consistenza vitrea dello specchio poi, seguendo le suggestioni della statua, sale su una sedia e, ad un tratto, si tuffa nello specchio divenuto improvvisamente liquido e lo attraversa, ritrovandosi in un mondo onirico dal quale riemergerà, riattraversando lo specchio, per infine distruggere la statua e trasformarsi in essa.

Particolare interessante, in una delle stanze che il poeta scruterà nel suo viaggio allucinato, si vede una bambina che sale su un caminetto, come Alice.

«Con Le sang d’un poéte ho provato a girare la poesia come i fratelli Williamson hanno girato il fondo del mare. Si trattava di sprofondare in me stesso, nella mia notte, la campana subacquea ch’essi calavano giù nel mare a grande profondità. Bisognava sorprendere lo stato poetico di cui molti negano l’esistenza… Naturalmente è molto difficile avvicinare la poesia… non vi nascondo che ho adoperato dei trucchi per rendere la poesia vedibile e udibile». (J. Cocteau, conferenza al Teatro Vieux-Colombier prima della proiezione del film, 1932).

Ed infine, lo stesso Cocteau torna sull’attraversamento dello specchio in Orfeo. Ambientato nella Parigi anni cinquanta, Euridice muore in un incidente stradale. Un misterioso personaggio, Heuterbise, una sorta di angelo custode del poeta, aiuta Orfeo ad attraversare uno specchio perché egli possa recarsi nell’aldilà e riportare indietro sua moglie. Gli fa indossare dei guanti e gli dice: «Adesso voi attraverserete lo specchio come fosse acqua, provate». Allo sguardo attonito di Orfeo, continua: «Vi rivelo il segreto dei segreti: gli specchi sono le porte attraverso le quali la morte viene e va. Del resto, guardatevi tutta la vita in uno specchio e vedrete la morte lavorare come api in un alveare di vetro».

Orfeo, spinto dal suo mentore, penetra a questo punto nello specchio, dapprima esitando con la punta delle dita ricoperte dai guanti.

A detta di Cocteau lo specchio nel quale si tuffa il protagonista di Le sang d’un poéte era costituito, per rendere l’effetto di un vero e proprio attraversamento in un liquido, da una vasca di mercurio in cui si immerge l’attore! Qualche anno dopo Jean Marais, nella parte di Orfeo, si limiterà a immergere nel mercurio solo le dita guantate.

Narciso: lo specchio d’acqua

Se lo specchio di Alice diventa una nebbiolina, e quello di Orfeo trasmuta in acqua, nel mito di Narciso è l’acqua stessa che si materializza in specchio per farsi riflesso dell’eroe.

Narciso era figlio dell’azzurra ninfa Liríope, che un giorno il dio del fiume Cefiso aveva avvolto nella sua liquida presenza, fecondandola. Liríope, che significa «dagli occhi sfacciati», aveva trasmesso la caratteristica del suo sguardo al figlio, che lo usò per ricongiungersi a se stesso.

Il veggente Tiresia aveva detto a Liríope, la prima persona che lo avesse mai consultato: «Narciso vivrà sino a tarda età, purché non conosca mai se stesso», curioso capovolgimento speculare del motto delfico.

E così, mentre Narciso è nel bosco, si imbatte in una pozza profonda e si accosta presso di essa per bere. Non appena vede, per la prima volta nella vita, la sua immagine riflessa, si innamora perdutamente del giovane che stava fissando: è chiaro che il rispecchiamento acquoreo è un ritorno alla sua essenza.

E dunque Narciso non si innamora della sua immagine, o non semplicemente almeno, ma della sua stessa acqua riflessa nell’immagine, in altre parole del riflesso immaginale della sua essenza acquorea.

«E ancora più profondo è il significato della storia di Narciso, che non potendo afferrare l’immagine dolce e tormentosa che vedeva nella fonte, vi cadde dentro e annegò. Ma quella stessa immagine noi la vediamo in tutti i fiumi e negli oceani. È l’immagine dell’inafferrabile fantasma della vita, ed è questa la chiave di tutto». Così dice Ismaele, la voce narrante di Moby Dick.

Ma tutti siamo fatti d’acqua. E allora, per farsi affascinare dal nostro riflesso bisogna tuffarcisi dentro, attraversare lo specchio d’acqua, impegnarsi più a fondo perché l’immaginazione torni a sognare. Così la forza poetica, che era debole nel semplice gioco dei riflessi superficiali, si esalta; l’acqua, diventata più pesante, più scura, più profonda, più avvolgente, la «materializza» in noi e per noi all’improvviso.

Lo sguardo acquoreo di Narciso potrebbe essere quello di ognuno di noi davanti ad uno specchio d’acqua riflettente: una rêverie sulla bellezza di noi stessi come parte della bellezza del Mondo, della nostra capacità di partecipare alla bellezza del Mondo con la nostra stessa bellezza.

L’immagine frantumata

Ma lo specchio può essere attraversato anche come decide di fare Lord Patchougue, protagonista racconto del dandy dadaista Jacques Rigaut, distruggendo insieme allo specchio l’immagine della sua stessa vita.

«È seduto a un tavolino, concentrato su un gioco di pazienza. Esiste? È fra due carte, poi è nel passaggio da una carta a un’altra: è in quell’istante a cui è ridotto l’universo – nove di cuori su dieci di fiori – Fatto. Lord Patchogue risolleva il capo, l’universo si rianima.

Le comparse, da un lato all’altro della stanza, fanno un gran baccano. Sul muro di fronte, in una grande specchiera, Lord Patchogue scorge la sua immagine, dice: vi riconosco. Non vi ho scambiato né per uno struzzo né per un riverbero, né per il mio amico Charles. Siete l’immagine di Lord Patchouge, se non addirittura Lord Patchouge in persona. Ah! Chi di noi due ha fatto la prima mossa? Chi segue l’altro? Lord Patchouge si è alzato. In piedi si esamina davanti allo specchio: cinque sensi non bastano ai suoi vicini occasionali; ancora una volta perderanno lo spettacolo, totalmente impreparati come sono a percepire la prossimità di un mistero o pensare alla morte.

Lord Patchouge e la sua immagine si fanno lentamente incontro l’una all’altra. Si studiano in silenzio, si fermano, s’inchinano. Da quale vertigine è stato colto Lord Patchouge? Fu breve, facile e magico: Lord Patchouge si è lanciato a testa bassa. Lo specchio all’urto, al trapasso, vola in pezzi, ma in quanto a lui eccolo dall’altra parte. Sono tutti in piedi. Il meraviglioso non è raro, l’incredulità è più forte dei miracoli. I miracoli fanno fatica a reclutare testimoni, tanto è esiguo il numero di coloro disposti a dare la propria adesione al soprannaturale. Lord Patchouge per primo non era poi così sicuro di aver compiuto il grande passo.

Nessuno fra quanti gli si raccoglievano intorno si accorse della stupefacente sparizione dell’amico. Lo circondavano come fosse stato ancora presente, mostravano di riconoscerlo, di sentire la sua voce. Subentrò tuttavia un certo disagio. Come mai Lord Patchouge non si era ferito più gravemente? Quel sottile, unico taglio di traverso sulla fronte non era sufficiente: non è cosa di tutti i giorni che uno attraversi impunemente uno specchio; si sarebbero sentiti tutti alquanto più sollevati se avessero avuto un gran numero di ferite da contare con tanto di perdita di sangue. Non c’era che una persona, la stessa che avrebbe officiato per il resto della serata, a sospettare il carattere fatale del sottile filo rosso che scalfiva la fronte del Lord. Un miracolo non viene mai da solo; sa qual è il suo dovere e perciò si fa accompagnare da manifestazioni collaterali straordinarie… All’indomani due operai vennero a sostituire lo specchio. Una volta terminato il lavoro, Lord Patchouge era scomparso».

Qui il personaggio prima rompe lo specchio, poi fa in modo di farlo sostituire per non tornare mai più, affinché la sua immagine sia per sempre altrove. L’attraversamento-scomparsa di Lord Patchouge è quella di un dandy che vive consapevolmente la sua vita nell’opposizione totale al processo di sviluppo borghese e che, con gesto radicale, afferma compiutamente la sua irriducibilità.

L’uomo di vetro

Seguendo le suggestioni sugli stati di trasmutazione della materia vitrea troviamo, all’opposto polare dell’acquoreo specchio di Narciso, quello dell’Uomo di vetro di Paul Valéry: qui è una vita che diventa rifesso di se stessa.

In questo capitolo dal romanzo Una serata con il Signor Teste del 1903 assistiamo, per così dire, alla vetrificazione di un uomo, di un testimone (Teste), totalmente assorbito dalla speculazione – dunque dal rispecchiamento – sul suo stesso pensiero: «Si droite est ma vision, si pure ma sensation, si maladroitement complète ma connaissance, et si déliée, si nette ma représentation, et ma science si achevée que je me pénètre depuis l’extrémité du monde jusqu’à ma parole silencieuse; et de l’informe chose qu’on désire se levant, le long de fibres connues et de centres ordonnés, je me suis, je me réponds, je me reflète et me répercute, je frémis à l’infini des miroirs. Je suis de verre».

«Così retta è la mia visione, così pura la mia sensazione, così maldestramente completa la mia conoscenza, così sottile e nitida la mia rappresentazione, e la mia scienza così compiuta, che io penetro me stesso dall’estremità del mondo fino alla mia parola silenziosa; e muovendo dall’oggetto informe del desiderio che nasce lungo le fibre conosciute e i centri ordinati, io seguo me stesso, mi rispondo, mi rifletto e ripercuoto, fremo dinanzi all’infinità degli specchi. Io sono di vetro» (traduzione di pb).

«Io sono di vetro», ecco la metamorfosi finale: l’uomo diviene lo specchio che egli stesso ha generato con la sua riflessione perspicua, con la sua speculazione. L’ultimo attraversamento sarà penetrarsi dall’estremità del mondo intelligibile per trasmutarsi nella sua vitrea essenza, divenire la fonte luminosa delle sue riflessioni, un puro e trasparente cristallo di lux perpetua nel gioco infinito dell’emanazione.

Nel dionisismo orfico il dio crea il Mondo osservando i suoi pensieri allo specchio, Tommaso D’Aquino, nella Summa teologica, parla di claritas per definire lo stato percettivo delle cose ultime.

Già nella seconda metà del Seicento, Perrault aveva raccontato la storia del signor Orante (dal greco «veggente», «mostrante»), trasformatosi in uno specchio veneziano per troppa distaccata obbiettività.

Chi è allora Teste? Un testimone, senza dubbio, di un’epoca trascorsa, un individuo, per dirla con Walter Benjamin «che, sul punto di attraversare la soglia della scomparsa storica, già ombra, risponde un’ultima volta al richiamo della sua identità, prima di tuffarsi là dove nessuno più lo aspetta» ma anche l’avanguardia disperata di un mondo del quale i suoi contemporanei non distinguono ancora i contorni, le determinanti simboliche effettive.

L’uomo di vetro riprende dunque il sogno eterno dell’orthotheron blepoi, la «retta visione» cui fa allusione Platone ne La Repubblica e sulla quale Cartesio fonderà la sua axiologia nel Discorso sul metodo.

È qui che l’affermazione di Teste esprime tutta la sua valenza profetica, perché l’idea di massima trasparenza, simboleggiata dalla sua trasformazione nel puro specchio riflettente dei pensieri, lungi dall’essere il delirio di un singolo, è invero l’anticipazione dell’oscuramento del sacro, cifra della modernità di matrice giudaico-cristiana.

Di tutte le idee legate alla visione stessa del divino, infatti, la trasparenza è quella che ha subito una degenerazione assoluta, proprio perché legata a questa suggestione di identificazione col Tutto, di ricongiungimento tra noi e l’eternità.

Prima della Caduta vi era accesso diretto all’illuminazione divina, nulla ci divideva dal Creato. Poi, con l’invenzione del peccato originale, della colpa, la luce radiante che trasformò la pelle di Mosè in uno specchio mistico (Esodo, XXXIV, 29-30), si allontanò dall’umanità; San Paolo, il fondatore della teologia politica, introdusse la metafora dello specchio affermando che si poteva contemplare Dio solo per speculum in aenigmate.

Via via secolarizzata, ritroviamo la trasparenza come instrumetum regni filtrata dalle grandi vetrate nell’architettura ascensionale delle cattedrali gotiche descritte da Panofsky, in cui la manifestatio divina era oramai solo allusa, mediata dalle figure dei santi, per arrivare poi, con la rivoluzione industriale, alla materialità corpuscolare dell’illuminismo ed infine alla società dello Spettacolo che l’ha progressivamente catturata nei neon dei centri commerciali, oramai strumento consensuale ed inappellabile del dominio mediatico-politico liberista di altri idoli totalmente secolarizzati e desacralizzati.

Per questoPaul Virilio parla di un accecamento del nostro psichismo, che si è ulteriormente aggravato sino alla elusione ottica di cui parla il geografo Franco Farinelli – commentando l’assenza di fotografie autentiche del cadavere di Bin Laden – in cui «ogni relazione tra quel che vediamo e quel che accade è messa talmente in forse da essere due cose che non soltanto non hanno tra loro nessun necessario rapporto ma si oppongono al punto da ridefinire proprio in tale opposizione la natura della realtà».

A differenza dell’intimo e discreto fremito emanante dal vetro di Monsieur Teste, questa trasparenza oscurante deve, nell’era mediatico-politica, essere mostrata ed esibita in pubblico affinché il suo display possa garantire non più l’accesso all’epifania del divino, ma l’opacità assoluta del dominio effettivo.

Ma, forse, senza scomodare i poeti e le antiche Potenze, come forma essenziale della nostra re-esistenza personale e collettiva, basterebbe che ognuno di noi tornasse con la memoria a quando, bambini, ci mettevamo in mezzo a due specchi e cercavamo di vedere dove finiva la nostra immagine riflessa verso l’infinito per rivivere l’incantesimo dell’attraversamento e ritrovare un poco della nostra trasparenza interiore.