«Il Veneto di campagna ha un passato non troppo remoto, senza leoni e serenissime, fatto piuttosto di stradine bianche che cominciavano, negli anni ’60 del secolo breve, a essere asfaltate e le fumose macchine e il piccolo corteo di uomini che le seguiva, erano l’emblema di un cambiamento che lasciava ogni ragazzino a bocca aperta»: è con queste parole che lo scrittore Fulvio Ervas descrive l’inizio di tutto, lo sconvolgimento ma anche la meraviglia che destava la grande trasformazione in atto in quello che sarebbe diventato il nordest, quel territorio ampio e policentrico che include Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige. Si tratti di reale omogeneità geografica, di vincolo economico o di affinità di spirito e d’immaginario, di certo ad accomunare questi luoghi c’è stata una forte spinta al ribaltamento degli equilibri esistenti fino ad allora: «asfaltare, raddrizzare, tagliare: il progresso era fatto di pochi, ma decisi, verbi».

PROPORRE una narrazione attuale, stratificata, lontana da semplificazioni e stereotipi: è questo l’intento che si pone Lettere da Nordest (Helvetia, pp. 168, euro 16), un racconto corale che riesce a restituire la complessità di tanti angoli diversi che vanno a comporre un quadro efficace ma certo non definitivo. I due curatori, Elisabetta Tiveron e Cristiano Dorigo, dopo il volume dedicato al centenario di Porto Marghera e la raccolta La Venezia che vorrei, allargano lo sguardo al paesaggio circostante, interrogando autori in grado di addentrarsi in micromondi conosciuti da vicino. C’è la Bolzano multietnica di Stefano Zangrando, la Trieste terra di frontiera descritta da Luigi Nacci, e c’è la Verona raccontata da Ubah Cristina Ali Farah e dalla giornalista Federica Sgaggio, che assomiglia sempre più a una violenta distopia che pare ispirata a un racconto di Orwell.

LA GIORNALISTA ambientale Elisa Cozzarini compie un viaggio lungo il Tagliamento, ridotto all’asciutto, irregimentato, minacciato dalle ruspe, un po’ come i molti altri fiumi di una terra che si è scordata da tempo dello stretto legame sempre avuto con i suoi corsi d’acqua. Francesca Boccaletto e Roberta Cadorin mettono in scena un dialogo toccante utilizzando testi e disegni a partire dalla tempesta Vaia che ha colpito Belluno, mentre lo scrittore Antonio Bortoluzzi vuole smontare il mito della montagna come solitudine, riscoprendone il senso comunitario. Gianfranco Bettin offre un ritratto inaspettato di Mestre, mentre Tiziano Scarpa, veneziano, ritrova i ricordi di famiglia a Roncade, l’estrema provincia, dimensione esistenziale collettiva prima che indicazione geografica (nota personale: io vengo da qui). Il tentativo di tracciare l’identità sfuggente di questi luoghi è caratterizzata, come scrive Francesco Jori, dall’ineludibile «esigenza di elaborare un percorso comune, perché è questo che richiedono i tempi a chi non voglia rimanere marginale, cioè periferia». Il rischio di non farcela c’è, forte, è causa di inquietudine e incertezza. Provarci, tuttavia, si deve.