Camminare è forse il modo più efficace per provare a conoscere e in molti casi a riconoscere un luogo, tanto più se si tratta di una città. Le città sono dei luoghi ambigui, strani e spesso incontrollabili, fatti di continue stratificazioni, di memorie mancate, di verità allusive. Sono l’insieme confuso e a tratti abbandonato delle biografie che le hanno attraversate e che come polvere si posano inesorabili anche sul corpo di chi quei luoghi oggi li vive e lì reinterpreta.

Marta Barone cammina molto o almeno così appare nel suo romanzo Città sommersa (Bompiani, pp. 304, euro 18), lo fa attraversando Milano e Torino come fossero due luoghi davanti allo specchio: la città del presente, quella del lavoro, dell’emancipazione e quella del passato che riprende forma, tra ricordi confusi e l’assenza di un padre perduto che ha portato via con sé le sue verità, i suoi segreti e le sue contraddizioni. Barone prova a riannodare i fili di un discorso con l’aiuto di chi quel passato e quel padre l’ha conosciuto bene, di chi ha vissuto quegli anni violenti, ideologici eppure appassionati e amorosi. E tenta di restituire una visione compatta, sicura di quell’uomo a tratti semplice a tratti misterioso, banale e geniale al tempo stesso, ma qualcosa manca sempre, come se fosse inesplicabile al nostro il tempo degli anni ’60 con le sue logiche allora plausibili e oggi insensate e le sue pratiche allora comuni oggi invece residuali.

UN RIMBALZO CONTINUO che mette in gioco l’autrice e la sua scrittura che tende a restare piana come per non inquinare i ricordi e le ricostruzioni che si vorrebbero obiettive o quanto meno capaci di ricondurre ad una visione sicura di chi fu quell’uomo e di cosa fu quel tempo. Invece pagina dopo pagina più la storia prende forma e più quella figura diventa più figure e il passo si fa incerto, il dolore si acuisce. La figlia e il padre sembrano inseguirsi spericolatamente lungo le pagine di un discorso interiore in cui le ragioni non conquistano spazio e i sentimenti sembrano ridursi a brevi e incontrollate crisi di nervi.
L’autrice racconta la storia di un padre e degli anni Settanta fuggendo dal cliché della memorialistica così come dallo stretto bisogno biografico. Non racconta di una famiglia e non racconta di un’epica politica, ma sta in un presente a tratti incapace di comprendere il passato e anche di descriverlo, un presente che alla passione sostituisce un sentimentalismo a tratti spiccio e che al senso di una storia vorrebbe imporre una verità che si rivela sempre e solo superficiale. Una scrittura biografica che giustamente rifiuta l’epica, ma che in tal modo forse non riesce a restituire una memoria, piena così come la densità di una storia che è contemporaneamente privata e pubblica.

QUASI IN MANIERA OPPOSTA agisce invece Giovanni Mastrangelo che con I padri e i vinti (La Nave di Teseo, pp. 300, euro 18) già nel titolo evidenzia un galoppo epico che parte dalla Resistenza e arriva fino agli anni ’80. Anche qui al centro la figura di un padre, o meglio di più padri che si susseguono quasi in una sorta di elaborazione del maschio e del suo lutto in una società che cambia più di quanto lui sembri in grado di cambiare. Il libro si snoda dal Fascismo alla Resistenza fino alla militanza nel Partito Comunista nel dopoguerra e alla contestazione negli anni ’70. Al centro una donna, attorno i padri, i compagni, i figli e le loro voci che in prima persona si raccontano e svelano se stessi. Un romanzo corale eppure compatto.
Mastrangelo danza nella Storia con leggerezza, la sua scrittura è una macchina da presa che mette a fuoco e corre subito via anche con il rischio ogni tanto di sfumare eccessivamente, di lasciare sul campo oggetti narrativi e discorsi abbandonati.
I padri e i vinti è dunque un romanzo efficace, potente che si intreccia con Città sommersa dando spiegazione di cosa significa una rivelazione e di come le verità intreccino biografie e differenze più di quanto si possa mai sospettare. Entrambi danno forma ad un tempo che più si allontana più si fa incomprensibile e in questo sta buona parte della loro qualità e della loro capacità di lettura, tuttavia è proprio nell’incomprensibilità che si esaurisce anche la loro forza narrativa perché per certi versi la frattura una volta rivelata viene anche accettata e quindi è come se per l’ennesima volta la Storia prevalesse sui suoi attori, vincendoli e sommergendoli e lasciando di loro solo ombre sempre più labili.