«Le città dei sogni sono dappertutto…Quando dico sogno non intendo qualcosa di vago o irreale…la città dei sogni è precisa in tutto e per tutto, al punto persino da rendere semplicemente impossibili le coincidenze, qualunque cosa accada»: così scriveva John Burnside per il manifesto, nell’estate del 2010. Era uno squarcio di vissuto argentino, imbevuto di quel realismo meravigliosamente diffidente cui soltanto uno scettico visionario scozzese potrebbe avere accesso. Parlava di una metropoli, Buenos Aires, disegnata e da lui restituita come una città labirintica, tentacolare, e al tempo stesso luogo onirico della memoria: un altrove sfuggente, plasmabile, soggetto a un’eterna hermenèia, una dimensione cognitiva fluida e straniante.
Poeta oltre che romanziere, vincitore nel 2012 del T.S. Eliot Prize, ma anche in precedenza del Whitebred e del Forward Poetry Award, Burnside non è nuovo alla reinvenzione di luoghi immaginari che fa soggiacere a una riscrittura allucinatoria. Accadde con Glister, tra le sue prove narrative più riuscite, dove si legge la mappatura fantastica e ossessionante di una città postindustriale, in cui paesaggi, colpiti da un’endemica decadenza, si stringono nelle maglie paranoiche della sua poetica.

John Burnside è una delle voci più rappresentative della letteratura scozzese contemporanea, ma non sempre la sua esistenza si è consumata sul fronte letterario. Ha attraversato anche esperienze legate al lavoro manuale, prima in fabbrica, poi come giardiniere, e infine come programmatore digitale.
Le sue opere, tradotte in decine di lingue, sono connotate da un’ansia, quasi una angoscia di trasfigurazione del mondo materiale e della natura, secondo paradigmi ineffabili, spesso alienanti, e questo allo scopo di esporne la fallacia. Le sue città sono luoghi in cui l’illusorietà di forme trasfigurate dalla scrittura rimanda a una dimensione che necessita di venire continuamente interpretata.

Di Burnside esce in questi giorni, nella suggestiva traduzione di Massimo Ortelio, un romanzo perturbante, L’estate degli annegamenti (Neri Pozza, pp. 285, euro 17,00), opera lontanissima, nell’ambientazione, da quella Scozia malata che è cara anche a tanti scrittori connazionali di Burnside. La vicenda si svolge, infatti, su un’isola sperduta del Circolo Polare Artico. Una giovane, Liv, vive con la madre, pittrice molto ammirata e corteggiata, che ha adottato la solitudine come modus vivendi. Anche Liv vive lontana da tutti, ma non per sua scelta. Si aggira tra paesaggi perfettamente desolati, e ha come unico amico un vicino, il quale sembra stare al mondo per raccontarle storie assai poco verificabili, storie di fantasia, che contribuiscono a nutrire di contenuti mitici la già fervida immaginazione della donna.

Nel romanzo, che si sottrae alla catalogazione nel genere thriller perché privo di una vera e propria azione e tutto giocato su una suspense di tipo linguistico, si intrecciano – nella calma piatta di stagioni che vedono notte e giorno sfiorarsi in una continuità senza confini – racconti di morti inquietanti. Inspiegabili, e infatti non spiegate, morti per annegamento, tutte di ragazzi, forse dovute al potere magnetico di una figura leggendaria, la Huldra, donna ammaliante ma pericolosa il cui richiamo è talmente irresistibile da lasciare che venga meno la consapevolezza dei rischi che si corrono entrando in suo contatto. Via via che il romanzo va avanti, la ragazza protagonista si fa più scettica a gradualmente abbandona la sua consolatoria credulità. Finché non approda a una dimensione di incertezza interiore in cui si confondono affabulazione e realtà, l’una e l’altra ormai parte di in un orizzonte condiviso.

Dotato della falcata e del ritmo di una narrazione antica e ricercata, il romanzo lascia intravedere echi appartenenti alla genesi della prosa inglese moderna. Tra le sue pagine si leggono le cadenze tonanti della Bibbia di Re Giacomo, esperimento letterario che, dopo le grandiosità shakespeariane e la mistica voluttuosità dei metafisici secenteschi, permea tutta o quasi la letteratura inglese degli ultimi quattro secoli, e in gran parte anche quella americana.
Curiosa appare in questa luce l’identificazione di una «differenza scozzese» nell’opera di Burnside, la cui lingua non sembra lambire le periferie della parlata di Scozia, che si presenta spesso come una loquela ruvida, disincantata, molto poco mediata. Burnside non condivide con tanti suoi contemporanei, letterati e cineasti, l’ambizione di rappresentare il reale come sembra presentarsi alla claritas dello sguardo. Ciò che interessa questo poeta-romanziere è scavare in un passato futuribile, allo scopo di mostrare, oltre la soglia delle apparenze, una coltre di sinistra pericolosità, una svanente insindacabilità dell’esistenza che appartiene a ogni passato e a ogni futuro: «la pioggia cadeva nel cerchio di luce ambrata del lampione, ma per un attimo, un attimo soltanto, mi parve di scorgere qualcuno nell’area giochi, una ragazza o una donna, forse, con la faccia all’insù nella pioggia, lo sguardo fisso sula mia finestra. Poco dopo i miei occhi si abituarono all’oscurità e capii di essermi sbagliata. Era un gioco di luce, un riflesso sulla superficie bagnata del parco giochi».

L’estate degli annegamenti, sul solco dell’insegnamento di Borges, e della sua Buenos Aires sognante e sognata, si situa al confine abituale tra realtà e fantasia, per descrivere i contorni di spazi all’apparenza incorrotti, ma sempre permeati dall’inquietudine di un passato mitico che ritorna come ossessione del presente, e come monito per l’incertezza del futuro.

Nei suoi romanzi, Burnside aspira, paradossalmente, a reincarnare la funzione del poeta-vate, legato al memento più che al momento, e tende dunque a proporre la sua parola come profetica. Echi di Blake sono evidenti in tutte le sue prove, ma ancora di più si avvertono reminiscenze di quello che è probabilmente il romanziere più importante del secondo novecento scozzese, Alasdair Gray, non a caso anch’egli poeta, e, come Blake, pittore e illustratore. Da Gray, John Burnside prende idealmente il testimone, in quanto narratore di un Scozia che passa da una dimensione realistica a una derivata dalla immaginazione. Se Gray tramuta la sua Glasgow nel nostro inferno, indulgendo nei mondi sotterranei di una memoria disgregata, Burnside trasferisce ciò che di visuale pertiene alla esperienza quotidiana in uno scenario che sarebbe apocalittico se non si limitasse a investire geografie interiori, sebbene precise e assai dettagliate.

Di queste geografie reinventate, declinate nelle astrazioni di un universo pallido e innevato, Gray è il maestro che fa al caso di Burnside: lo è, per esempio, nel valutare l’incertezza delle impressioni: «schiere di nubi nevose dividevano schiere di montagne innevate, e cieli argentei sfioravano oceani tanto scintillanti da non poter discernere alcun discrimine tra loro… Nulla era adesso visibile al di là della luce del sole… Fiumi simili a fili d’argento scorrevano tra le valli, separando le alture più basse, mentre linee bianche di cascate ricadevano tra le nuvole a partire dalle vette di alcune scogliere». Scenari ideali, proiezioni dell’animo umano cui i personaggi evanescenti di Gray, come quelli del suo figliastro letterario Burnside, soggiacciono fino a restarne definitivamente incantati.