Quando nel marzo 1927, un paio d’anni dopo l’uscita americana, La febbre dell’oro di Charlie Chaplin arriva a Parma, Attilio Bertolucci e Pietro Bianchi si mobilitano perché Cesare Zavattini lo veda, anzi ve lo accompagnano a forza. Con il risultato di conquistare alla nuova arte quello che sarà uno dei grandi sceneggiatori del cinema italiano. Studenti liceali, Attilio ha sedici anni e Pietro diciotto, sono stati suoi allievi quand’era istitutore al Collegio Maria Luigia, maturando nei confronti di Za – che proprio in quell’anno è diventato il vulcanico caporedattore delle pagine culturali della Gazzetta di Parma – un rapporto profondo e duraturo.

Nella Parma degli anni venti – «la petite capitale d’autrefois» – la scoperta del cinema fa parte della vivacissima attenzione con cui si guarda a tutto ciò che è nuovo. Nello stesso momento in cui ci si accosta con emozione ai volumi di À la recherche du temps perdu di Marcel Proust, ci si accorge che in quello scorcio finale del muto, quando sta per essere sostituito dal sonoro, il cinema lascia il segno con gli strepitosi capolavori di un’arte estremamente raffinata, raggiungendo senza la parola vertici sorprendenti e insuperabili. Il giovanissimo Attilio all’Edison, al Lux, all’Orfeo, le sale della città, vede in prima visione Variété di Ewald Andreas Dupont, La passione di Giovanna d’Arco di Carl Theodor Dreyer, I due timidi di René Clair, La folla di King Vidor, Teresa Raquin di Jacques Feyder, Lulu di Georg W. Pabst.

Indelebile il ricordo di Aurora di Friedrich W. Murnau che, annunciato ma rimandato al giorno dopo, lo mette in ansia e gli fa venire la febbre a 38, ripagandolo poi con le sovrimpressioni di immagini incrociate da capogiro della sequenza iniziale, accompagnata dalla didascalia: «Estate. Le folle lasciano le grandi città», il primo impatto con l’eccitante America di Murnau. Come dimenticare poi Sinfonia nuziale di Stroheim, dove l’amore del nobile per la ragazza del popolo esplode sullo sfondo della sfarzosa decadenza dell’impero asburgico e dei suoi riti, a partire dalla «processione del Corpus Domini a Vienna, a stupendi colori nel bianco e nero mirabile del resto del film, con Fay Wray accaldata che lancia il mazzolino di violette sullo stivale dell’ufficiale di cavalleria Erich von Stroheim»?

Negli anni trenta – niente film italiani che non va a vedere per quello che gli amici chiamano il suo «antifascismo viscerale», con l’unica eccezione di Gli uomini, che mascalzoni… di Mario Camerini – non mancano le novità più o meno folgoranti come Sotto i tetti di Parigi di René Clair, La cagna di Jean Renoir, Il club dei 39 di Alfred Hitchcock, senza dimenticare il recupero dei classici di Sergej M. Ejzenstejn, e di Vsevolod I. Pudovkin. Nessuna particolare mitizzazione né di Greta Garbo, né di Marlene Dietrich, allora quasi d’obbligo. Se Greta per almeno un decennio è stata la mirabile interprete di titoli quasi sempre brutti, Marlene, famosa soprattutto per le gambe, è l’attrice di un solo film, L’angelo azzurro, prima che Josef von Sternberg – barocco, decadente, feticista – non le alienasse tra sete e piume il consenso delle platee dell’epoca, lontanissime dall’immaginare che un giorno sarebbe stato rivalutato. Quando il tempo delle due fatali volge al termine, ci penserà Ernst Lubitsch a farne sull’orlo dell’abisso le magnifiche interpreti comiche di Angelo e di Ninotchka.

Quanto alla Sophisticated Comedy, straordinaria soprattutto se i registi, oltre a Lubitsch, si chiamano Howard Hawks, Leo McCarey, George Cukor, la sua memoria è affidata a un piccolo gruppo di attrici eccezionali come Carole Lombard, Miriam Hopkins, Irene Dunne, Katharine Hepburn. Se allora sembrò un miracolo, un miracolo di breve durata, è perché oltre ai nomi dei registi e degli attori non si conoscevano quelli degli sceneggiatori, «alcuni tra i più geniali e spiritosi giovani della New York dell’epoca, compagni di bevute di Dorothy Parker, Francis e Zelda Fitzgerald».

Parma capitale della cinefilia? Nel dopoguerra nel giro di pochi anni nascono addirittura due riviste, La critica cinematografica e Sequenze. Attilio collabora a entrambe, ma è indimenticabile il fascicolo di Sequenze dedicato al “Letterato al cinema”, una splendida raccolta di grandi firme, in cui riprende e allarga l’inchiesta solariana del ’27, con testi di Luigi Pirandello, Gabriele D’Annunzio, Massimo Bontempelli, Eugenio Montale, Emilio Cecchi, Cesare Zavattini, Giuseppe Ungaretti, Alberto Moravia, illustrati con gli inconfondibili disegni di Mino Maccari. Ma il suo impegno fondamentale è la rubrica di recensioni che tiene sulla Gazzetta di Parma dal settembre 1945 al maggio 1951, con centinaia di cronache nelle quali è importante il rapporto con il pubblico, a cui il critico consiglia i film da vedere e, senza pedanteria, fa opera di vera e propria educazione del gusto. Nei primi anni prevalgono i film americani, che sembrano aver occupato militarmente le sale della città con i peggiori fondi di magazzino, ma anche con tutte le pellicole che dal ’38 l’embargo delle major non ha consentito di essere importate.

Tra i film nuovi o quasi nuovi segnala Giorni perduti di Billy Wilder, Odio implacabile di Edward Dmytryk, Vertigine di Otto Preminger, L’ombra del dubbio di Alfred Hitchcock, Giungla d’asfalto di John Huston, La donna del bandito di Nicholas Ray, Sfida infernale di John Ford, Monsieur Verdoux di Chaplin. Mentre restano nel limbo delle cose riuscite solo a metà I gangsters di Robert Siodmak, Acque del sud di Hawks, Per chi suona la campana di Sam Wood, dove la «fonte Hemingway» è esplicitamente messa in discussione con grande competenza. Il posto d’onore va invece al cinema inglese, a Breve incontro, la piccola sinfonia intimista di David Lean, a Enrico V, il film shakespeariano di Lawrence Olivier, all’epoca molto amato, a Scarpette rosse di Michael Powell e Emeric Pressburger, che esalta il sortilegio inebriante del balletto. Tra i francesi applaude Legittima difesa di Henri-Georges Clouzot e Le vacanze di Monsieur Hulot di Jacques Tati, lasciando sullo sfondo gli ultimi titoli di André Cayatte, Marcel Carné, Julien Duvivier, Jean Cocteau.

E l’Italia? Non sono moltissimi i titoli italiani di cui scrive sulla Gazzetta. Subito dopo Roma città aperta, accolto con tutti gli onori, il film che suscita l’entusiasmo del critico è Paisà: «Un’opera di nuova, potente poesia che pone Rossellini fra i più grandi registi del nostro tempo». L’episodio migliore è «quello della guerriglia dalle parti di Comacchio, un pezzo di cinema da non sfigurare vicino ai russi del periodo eroico e a certo Ford». Se già Germania anno zero lo convince solo in parte, non è certo disposto a seguire il grande Roberto quando con Europa 51 cerca di affrontare i massimi problemi, offrendo a Ingrid Bergman un ingombrante canovaccio ibseniano. Se apprezza moltissimo Sciuscià e Ladri di biciclette di Vittorio De Sica e Cesare Zavattini («Non v’è un’inquadratura convenzionale, ogni gesto e sguardo è vero»), trova di grande interesse, pur nella loro diversità, Anni difficili di Luigi Zampa e Sotto il sole di Roma di Renato Castellani.

Pollice verso nei confronti di Il bandito di Alberto Lattuada, che comincia bene ma finisce male quando si affida al «gangsterismo tradotto in torinese, con tutte le interpolazioni mamoulianesche e sternberghiane». Apprezza le buone intenzioni di In nome della legge di Pietro Germi, ma gli dà fastidio quell’aria da western in cui va a finire la storia di mafia così attuale.Nella rubrica di cinema che – subito dopo il trasferimento a Roma – tiene su Giovedì, il settimanale diretto da Giancarlo Vigorelli, dal novembre ’52 all’ottobre ’53, gli interventi non hanno più l’immediatezza delle cronache per la Gazzetta, sono più ampi e meditati con un andamento più saggistico che critico, nei quali meglio si dispiegano l’acume interpretativo e il talento affabulatorio di Bertolucci. Naturalmente non mancano le novità che suscitano il suo pieno consenso, come La provinciale di un Mario Soldati finalmente tornato a far sul serio, misurandosi con la capacità di oggettivazione tipica di Moravia, folgorante soprattutto quando si tratta di rappresentare le ambiguità della borghesia. Ma gli appuntamenti più felici sono quelli con le vecchie conoscenze, con i registi che segue da sempre sicuro di evitare le brutte sorprese.

Se è esemplare il Ford di Un uomo tranquillo, dove l’ascendenza irlandese consente al vecchio leone di giocare sul sicuro, non è meno esplicita la sintonia con Huston, che con La regina d’Africa si conferma il brillante narratore in grado di imprimere un’amara freschezza all’avventura. Certo, non ci sarebbe riuscito senza la scintillante bravura di due interpreti come Humphrey Bogart e Katharine Hepburn. A lei va l’ammirazione del critico: «Lasciateci lodare questa specie di cavalletta spiritata che da quasi vent’anni tiene vittoriosamente il campo, mentre intorno sono cadute le belle, le dolci, le fatali». Nell’insieme prevale però la tristezza del congedo, il saluto memore ma crudele ai grandi autori di ieri che cominciano a perdere colpi se non addirittura a fare cilecca. Sono anzitutto i francesi, il Clair di Le belle della notte e il Renoir di La carrozza d’oro, che spiccano nella produzione corrente, ma non possiedono più lo smalto delle grandi stagioni.

Se non gli dispiace Giochi proibiti di René Clément ma storce il naso di fronte a Vite vendute di Clouzot, non esita a dirlo chiaro e tondo: «Quella scuola che ci diede i banditi della Casbah, le albe tragiche, e i porti delle nebbie, sfuma ormai in una sorta d’amabile Arcadia». Neppure gli americani se la passano bene, anzi a essere in crisi è Hollywood, che per un felicissimo Morte di un commesso viaggiatore di Laslo Benedik infligge al pubblico lo spettacolo della propria inaffidabilità. Nessuna simpatia per Rita Hayworth, di cui a suo tempo ha stroncato senza pietà Gilda di Charles Vidor, e prende ora le distanze da Trinidad che ormai ricicla una diva di seconda mano. Ancora più perfido è con Marylin Monroe, il nuovo sex-symbol di Niagara di Henry Hathaway, in cui si rammarica che Joseph Cotten, che finirà con strozzarla, non l’abbia fatto prima.

Incalzati dalla malinconia, non resta che mettersi comodi e godersi la galleria di prim’ordine, che va da Alleluja di Vidor a Scarface di Hawks, da Femmine folli di Stroheim a Il dittatore di Chaplin, clamorosi recuperi di stagione. Ecco finalmente il nome di un attore-autore che neppure questa volta delude. Sarà un caso, o forse no, ma il pezzo più bello tra quelli apparsi nel settimanale è dedicato a Luci della ribalta, il nuovo film di Charlie Chaplin, appena uscito nel ’52 sugli schermi italiani, che gli consente di rinnovare l’antica fedeltà: «Appena l’abbiamo veduto comparire ad apertura di film abbiamo detto: Eccolo, è ancora lui, non ci ha traditi. E non ci ha traditi anche se ha parlato tanto e, ora che è vecchio, gli è venuta voglia di filosofare sull’amore, l’invecchiare, la solitudine, la fama, la paura della morte».

Biografia di un poeta

Attilio Bertolucci, uno dei più grandi poeti italiani del Novecento, nasce a San Lazzaro, vicino a Parma, il 18 novembre 1911 da una famiglia di borghesia agraria. Vive tra Baccanelli e Casarola. Dopo gli studi liceali, si trasferisce a Parma. Ventenne, costretto a letto da una brutta pleurite, si dedica alla lettura dei gialli. Si iscrive alla Facoltà di Lettere della Università di Bologna per seguire le lezioni di Storia dell’arte di Roberto Longhi, di cui si considererà sempre allievo. Nello stesso periodo è uno degli appassionati animatori del Cine-Guf di Parma che, sorto nel ’37, promuove seguitissimi cicli di classici del cinema. Si laurea nel ’38 e incomincia a insegnare Storia dell’arte nelle scuole superiori. Nello stesso anno, si sposa con Ninetta Giovanardi. Nel 1941 nasce Bernardo e nel 1947 Giuseppe, entrambi futuri registi cinematografici. Nel dopoguerra, collabora con il regista Antonio Marchi, scrivendo i testi di una decina di documentari. Nel 1952 si trasferisce a Roma con la famiglia, andando a abitare nel quartiere di Monteverde, in via Carini, 45, in un edificio dove più tardi andrà anche Pier Paolo Pasolini. Comincia a collaborare al «Terzo Programma» della Rai e allo sceneggiato televisivo La fiera della vanità di Anton Giulio Majano da Thackeray. Scrive anche su Paragone, l Approdo Letterario, La Fiera Letteraria, L’Illustrazione Italiana.

Lettore onnivoro di narrativa soprattutto inglese, americana e francese, diventa consulente di Livio Garzanti, contribuendo a favorire l’incontro tra l’editore e la società letteraria italiana, a cominciare da Pier Paolo Pasolini che sta scrivendo Ragazzi di vita.

Chiamato da Enrico Mattei, dal ’55 al ’64 dirige Il Gatto Selvatico, il mensile dell’Eni, facendone un vivacissimo rotocalco di impianto divulgativo. Quando a metà degli anni sessanta Garzanti inaugura la collana «L’età d’oro del fumetto», scrive le divertenti introduzioni ai volumi dedicati al Signor Bonaventura, a Fortunello e la Checca, a Buster Brown. Alla collaborazione con Il giorno dal ’63 al ’76, segue quella con la Repubblica, dal ’76 agli anni novanta. Poeta di singolare precocità, nel 1929 pubblica Sirio, la sua prima raccolta. Nel 1951 con La capanna indiana, edita da Sansoni, vince il premio Viareggio per la poesia. Nel corso degli anni, attende a un poema di impianto narrativo, un romanzo in versi dalla complessa struttura, La camera da letto, che esce da Garzanti in due volumi nel 1984 e nel 1988. La Cineteca di Bologna ne curerà nel 1991 un’originale versione video, La camera da letto. Un film in versi di Stefano Consiglio in tre dvd di complessivi 534’. Uno dei suoi libri più belli è Aritmie, Milano, Garzanti, 1991, un’antologia delle sue prose più suggestive. Muore a Roma il 14 giugno 2000. Solo tra anni prima era uscito il meridiano delle Opere, a cura di Paolo Lagazzi e Gabriella Palli Baroni, Milano, Mondadori, 1997.
Le recensioni cinematografiche apparse su Giovedì sono raccolte i Attilio Bertolucci, Ho rubato due versi a Baudelaire. Prose e divagazioni , a cura di Gabriella Palli Baroni, Milano, Mondadori, 2000, e in Attilio Bertolucci, Riflessi da un paradiso. Scritti sul cinema, a cura di Gabriella Palli Baroni, Bergamo, Moretti & Vitali, 2009, che comprende anche le cronache apparse sulla Gazzetta di Parma.

Sulla collaborazione ai documentari è interessante il libro di Mirko Grasso, Cinema primo amore. Storia del regista Antonio Marchi, Lecce, Kurumuny, 2010. Le centinaia di lettere di Attilio Bertolucci e di Cesare Zavattini sono raccolte in Un’amicizia lunga una vita. Carteggio 1929-1984, a cura di Guido Conti e Manuela Cacchioli, Parma, Mup, 2004, di cui vogliamo citare la bellissima lettera di Attilio a Cesare del 26 gennaio 1977, dove, dopo un’ accesa telefonata, difende a spada tratta Novecento di Bernardo, appena uscito.