Decolonizzare il presente attraverso la ricerca è una prassi politica che può rimettere in discussione l’archivio coloniale, le forme di soggettivazione imposte dai dispositivi confinari, l’organizzazione del lavoro e le tipologie di estrazione di ricchezza, le genealogie di potere in una prospettiva intersezionale. La costruzione dello sguardo critico è fondamentale perché l’attribuzione di senso in ciascun contesto – sia esso un luogo reale o un campo d’analisi – dipende dalle categorie adottate e dal linguaggio.

Come dire: a regole precise, risultati certi, o almeno previsti. In tal senso, per un’indagine approfondita è necessario spostare l’attenzione dal sapere, come esito della costituzione dell’egemonia, ai metodi di produzione narrativa. Mi riferisco, cioè, alle griglie, alle piattaforme e alle strutture di elaborazione discorsiva, in una parola alla tecnica, passando, così, dal risultato al mezzo. E di qui partire per pensare e agire forme di resistenza.

NON RELEGARE l’indagine alla geografia piana del discorso sgombra il campo dai miraggi e dalle ambiguità della rappresentazione – si pensi al concetto di solidarietà e alla critica della «ragione umanitaria» proposta da Nirmal Puwal, Didier Fassin e Miguel Mellino. Tale approccio oblitera il sapere che incapsula il privilegio, la presunta obbiettività scientifica del contesto e le immagini razzializzate, come quelle del pietismo cattolico e «di sinistra» per «i migranti», nelle quali la superiorità del bianco può diventare un a-priori invisibile. Esso svela, inoltre, molte continuità tra la tradizione epistemologia occidentale e il «governo dei viventi», la biopolitica; continuità che, chiaramente, non riguardano solamente le istituzioni, ma anche la cultura popolare; che sono chiamate in causa dai modelli di riproduzione strutturale del capitalismo.

L’indagine può essere diretta lungo traiettorie diverse. Una di queste riguarda i luoghi liminari delle governance nazionali e dello spazio Schengen. La Giungla di Calais (ombre corte, pp.160, euro 14), testo a cura di Michel Agier, racconta il campo di Calais fino al 24 ottobre 2016, giorno dell’evacuazione della bidonville più grossa d’Europa con un’operazione decisa dal governo allora in carica per riconquistare un elettorato ampiamente perduto. Il volume, scritto a più mani, è il risultato di un lavoro collettivo nel quale Agier ha coinvolto studiosi di numerose discipline, attivisti e solidali.

Il primo capitolo racconta la storia di Calais dall’indifferenza dei poteri francesi, nel 1986, alla chiusura definitiva del campo. Segue un’analisi delle esperienze di sistemazione delle persone migranti, dal primo centro di accoglienza di Sangatte alla Jungle. Da esse emerge una condizione cronica di vita precaria a cui è dedicato il terzo capitolo. Sono studiale, inoltre, le forme di solidarietà e le modalità con cui avviene lo sgombero.
Calais come spazio liminale, ma anche, per tornare a quanto detto poc’anzi, quale luogo di confine della discorsività. Per gli autori, è «metonimia della crisi», ossia è, al contempo, «tra i luoghi nazionali più coercitivi in materia di sicurezza» e uno spazio di «extra-territorialità». Nella postfazione, Roberto Beneduce riprende questo passaggio e riapre la riflessione oltre Calais, per una ricerca su altre postcolonie, ricordando, al contempo, l’importanza di studiare le incrostazioni del passato coloniale e le forme di resistenza.

UN ALTRO PERCORSO è indagato nel volume I confini dell’inclusione (DeriveApprodi, pp.204, euro 20), a cura di Vincenzo Carbone, Enrico Gargiulo e Maurizia Russo Spena. «Dimostrare di volersi integrare»: è quanto richiesto ai non cittadini dai governi di numerosi stati. Lo scarto tra la retorica del demos, generalmente neutrale sul piano dei valori, e quella dell’ethnos, che riguarda solamente i cittadini, si risolve, in Europa, con un processo di acculturazione, ossia di riconduzione a, e «inclusione» in, un sistema culturale considerato e rappresentato come chiuso e predefinito. Acculturazione e colonizzazione hanno la stessa etimologia, ricordano i curatori: entrambe le parole derivano dal verbo latino colere, ossia coltivare. L’acculturazione, quindi, è letta, in questo volume, come una colonizzazione dei non cittadini all’interno del territorio nazionale.

GLI «STRANIERI» sono considerati «altri» in senso culturale, sono gruppi «etnicamente» diversi. Il differenzialismo, funzionale ai processi di integrazione civica, legittima scelte altamente disciplinate, coercitive e selettive. Miguel Mellino, nel suo contributo, analizza il concetto di razza e la sua declinazione nelle politiche relative alla vita e alla morte delle persone migranti.
Enrico Gargiulo propone una disamina sulla precarizzazione dei legami di appartenenza a uno Stato e sulla stratificazione civica. Il dovere dei «migranti» di parlare la lingua italiana e di essere considerati meritevoli solamente se devoti al lavoro sono due aspetti indagati da Maurizia Russo Spena e Vincenzo Carbone.

Giuseppe Faso, invece, focalizza l’attenzione sul Piano nazionale d’integrazione dei titolari di protezione internazionale (2017), con uno sguardo storico che parte dal primo Accordo di integrazione. Paolo Cuttitta, poi, studia proprio quest’ultimo provvedimento, voluto dall’allora ministro Maroni, nella prospettiva del confinamento dei soggetti, tra discriminazioni e deportazioni. Il saggio di Michael Eve e Maria Perino, infine, si occupa di come i figli degli immigrati sono visti e rappresentati dalle istituzioni italiane, del ruolo del nazional culturalismo nell’escludere gli immigrati e i loro discendenti dalla comunità immaginata nazionale.

UNA TERZA DIREZIONE della ricerca può riguardare l’analisi delle forme di opposizione. Il volume curato da Salvatore Palidda, Resistenze ai disastri sanitari, ambientali ed economici nel Mediterraneo (DeriveApprodi, pp. 283, euro 20), percorre proprio questa traiettoria, occupandosi delle conseguenze dell’Antropocene con un approccio che tiene insieme più questioni: lo sfruttamento delle risorse e le guerre, le migrazioni e i disastri ambientali, il ruolo delle lobby finanziare e la produzione di armamenti.
«La resistenza – scrive Palidda – ha bisogno di superare la separazione dei saperi e delle professioni», l’accesso alla conoscenza delle popolazioni quale conseguenza di una modernità basata sul profitto. E, nello specifico, il focus del libro è individuato nel mondo euro-mediterraneo come area del globo ad alto rischio.

LA PRIMA PARTE è dedicata alla storia sociale dell’eco-genocidio, con contributi sul rapporto tra economie e disastri (Palidda), sui rischi nell’area (Torre) e sulla responsabilità e l’ipocrisia dell’Organizzazione mondiale della sanità nell’imporre impegni «solenni» mai rispettati (Palidda). La seconda parte tratta casi di studio di alcuni Paesi: il ruolo del contro-colpo di Stato in Turchia nell’occultare disastri (Pérouse e Kaya); le responsabilità dei colletti bianchi in Francia (Mucchielli); le apocalissi spagnole e le resistenze ad esse (Palidda); l’esperienza del Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Vernin); la condizione dei rifugiati siriani in Giordania (Dorai).
La terza parte si occupa del caso italiano: della strage del Vajont (Vastano), dell’inquinamento atmosferico (Sergi), delle resistenze alla devastazione del territorio dell’industria petrolchimica di Augusta-Priolo-Melilli (Benadusi); della governance post-terremoto nell’Irpinia (Petrillo); del disastro dell’amianto Isochimica (Ferraro); della terra dei fuochi e delle rivolte in Campania (D’Ascenzio), del rapporto tra contaminazioni cancerogene e basi miliari (Mazzeo), del caso emblematico del poligono di Quirra, in Sardegna (Manunza).