Sembravano far parte di una fantasmagorica fiction le immagini di mons. Rolando Alvarez il 4 agosto scorso vagando per le vie della cittadina rurale di Matagalpa nel nord del Nicaragua, innalzando l’ostensorio col “santissimo” e avvicinandosi agli ufficiali della polizia orteguista implorandoli di pace e ripetendo (ginocchioni) “siamo fratelli”. Con gli agenti che ogni volta imbarazzati si scostavano più in là, sotto l’inesorabile obiettivo degli smartphone.

Sta di fatto che il prelato è da allora agli arresti domiciliari nella curia vescovile (insieme ad altri 5 sacerdoti e tre laici) con l’accusa di “organizzare gruppi violenti per commettere atti di odio e discordia”. Che è poi uno degli ultimi reati inventati dalla cattolicissima (molto a suo modo) Rosario Murillo, vicepresidente nonché consorte del “fu” comandante guerrillero Daniel Ortega.

La coppia presidenziale sta facendo di tutto per convincere mons. Alvarez ad abbandonare il paese, come hanno fatto ormai almeno 160mila nicaraguensi dalla rivolta popolare del 2018 soffocata nel sangue. Ma il vescovo si resiste, a rischio di finire nelle segrete del Nuevo Chipote, dove sono già rinchiusi da oltre un anno in condizioni disumane quasi duecento dissidenti delle più diverse tendenze politiche; a partire dai candidati presidenziali che non hanno potuto conseguentemente partecipare alla farsa elettorale del novembre scorso dove Ortega si è perpetuato al potere per la quarta volta consecutiva.

In compenso sono tre i sacerdoti incarcerati nell’ultimo mese in varie zone del paese (uno di essi per presunta violazione di una donna). Mentre il curato di Sebaco è anch’egli rinchiuso da domenica scorsa nel recinto parrocchiale da dove ha incredibilmente distribuito la comunione attraverso le maglie della recinzione ai fedeli, cui la polizia aveva impedito di entrare in chiesa.

Dopo la messa fuori legge di tutti i partiti dell’opposizione, la chiusura dei mezzi d’informazione indipendente (con relativi giornalisti che continuano ad informare nella clandestinità o dall’esilio), la cancellazione nell’ultimo anno di 1.400 ong sia nazionali che estere, ora è il turno dell’ultimo spazio di libertà “civile” possibile in Nicaragua: la chiesa cattolica. Non che la conferenza episcopale locale si sia spesa recentemente più di tanto in critiche al regime, neanche per la recente chiusura di una decina di sue emittenti radio o il divieto di alcune processioni religiose. Dopo che nei mesi della sollevazione di quattro anni orsono diversi templi si erano convertiti in rifugi per i giovani studenti ribelli.

Da allora sostenitori del clan degli Ortega si sono distinti (oltre che in irruzioni in luoghi sacri) per la clamorosa profanazione nel marzo 2020 dei funerali del padre/poeta Ernesto Cardenal, ministro della Cultura durante la rivoluzione sandinista; e per il successivo attentato incendiario della cappella del sangue di Cristo nella cattedrale di Managua.

Ma l’aggressività del regime è diventata palese con l’allontanamento nel marzo scorso del nunzio vaticano, il polacco Waldemar Sommertag, reo di non aver presenziato da decano del corpo diplomatico alla cerimonia di rinnovo presidenziale di Ortega per aver “preferito” recarsi a Roma. E che pure non aveva poi una così pessima opinione di Rosario Murillo, la quale nel 2007, per ingraziarsi i favori dell’allora arcivescovo della capitale cardinal Obando y Bravo (storico nemico della rivoluzione) introdusse per la prima volta in Nicaragua una legge antiaborto, che per di più comprendeva i casi di violazione o malformazione del feto.

Il colmo si è però registrato nel luglio scorso con la clamorosa espulsione dal paese delle 18 suore della carità di madre Teresa di Calcutta, che certo di politica non si occupavano. Cui lo stesso arcivescovo di Managua, cardinale Leopoldo Brenes, ha reagito con fin troppa timidezza. Mentre al contrario si sono moltiplicate in questi anni le visite di predicatori di sette fondamentaliste dagli Stati uniti, favorite dalla delirante vicepresidente.

In questo contesto di repressione aperta, da differenti istanze (dentro e fuori del Nicaragua) ci si chiede come mai papa Francesco non sia ancora intervenuto personalmente con qualche frase di censura. Lo hanno fatto in cambio con durezza gli altri due cardinali dell’istmo centroamericano: il salvadoregno Gregorio Rosa Chavez e soprattutto Oscar Rodriguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa, strettissimo collaboratore di Bergoglio in quanto coordinatore del Consiglio dei cardinali che ha redatto la recente riforma della costituzione vaticana. Nell’aprile 2019 il pontefice aveva richiamato a Roma il vescovo ausiliare di Managua Silvio Baez, distintosi dal pulpito come oppositore. Ma pare per motivi non legati alle vicende nicaraguensi.

Così che l’unica nota di biasimo ufficiale è finora venuta dalla Conferenza episcopale latinoamericana (Celam) e da Juan Antonio Cruz Serrano, rappresentante permanente della Segreteria di Stato vaticana presso l’Organizzazione degli Stati Americani (Osa); che l’altro giorno si è riunita per condannare il Nicaragua con 27 voti a favore, 1 contrario (San Vicente), 4 astensioni (Messico, Bolivia, El Salvador e Honduras) e l’assenza di Colombia e Nicaragua (oltre che di Venezuela e Cuba).